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Antoine Volodine, il bardo del mondo che va verso il nulla

Intervista allo scrittore francese, di cui in Italia è da poco uscito Le ragazze Monroe: con lui abbiamo parlato di letteratura post-postapocalittica, di come si fa a mettere assieme il realismo magico e quello socialista e di cosa sia l'umorismo del disastro.

di Marco De Laurentis

È difficile descrivere in poche righe la figura di uno scrittore come Antoine Volodine, definito inclassificabile dai suoi stessi critici. Il movimento letterario che lui stesso ha fondato, il post-esotismo, è una combinazione variegata di diversi elementi: storici, politici, fantascientifici e metafisici. In realtà lo stesso suo nome è uno pseudonimo, o meglio un eteronimo, si considera infatti come il portavoce di un insieme di scrittori, con identità diverse e ben definite: Manuela Draeger, Lutz Bassmann, Elli Kronauer. I suoi non-romanzi hanno rotto i legami di forma e le barriere di genere della letteratura ufficiale, tentando di spingersi oltre, verso territori inesplorati, o per usare le sue parole, con l’obiettivo di creare una propria versione di letteratura che «viene dal nulla e va verso il nulla». Come nel caso del suo ultimo libro pubblicato, Le ragazze Monroe (66thand2nd, traduzione di Anna D’Elia), la contiguità tra la realtà, la follia e il sogno diviene sempre più pervasiva.

ⓢ Cominciamo dall’ultimo libro pubblicato in Italia e il 45esimo dell’edificio post-esotico, Le ragazze Monroe. In quest’opera, come altre precedenti, ritorna il tema della prigione, la sorveglianza di massa, gli interrogatori dei vari aguzzini, il lavaggio del cervello. Perché è così importante questo tema per gli scrittori post-esotici?
Gli scrittori post-esotici (dirò quindi a volte io, a volte noi quando rispondo alle sue domande) traggono ispirazione dalla loro quotidiana vita carceraria, poiché le voci fondamentali del post-esotismo nascono in un carcere per detenuti politici in regime di alta sicurezza dove sono raggruppate – questa finzione narrativa appare in modo più prominente in ll post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima. La loro vita quotidiana è un mondo di sconfitte, politiche e militari. L’altra fonte di ispirazione si trova nel passato: quella dei campi di lavoro, dei campi di sterminio, dei campi profughi che hanno conosciuto direttamente o “per delega” intellettuale e ricettiva. La terza fonte essenziale è quella delle sciagure umane in genere, contro le quali si è lottato invano – in questa lotta persa molti nostri compagni, uomini e donne, sono morti, e costruire queste finzioni di cui sono gli eroi è un modo per onorarli. È di questo contesto che bisogna tener conto quando si approfondiscono le variegate storie dell’insieme romanzesco che abbiamo costruito libro dopo libro. Ci sono molte ramificazioni fantasmatiche e fantastiche, ma lo sfondo della prigione e della sconfitta è quasi sempre presente, indipendentemente dall’ambientazione.

ⓢ Ne Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima si afferma che il Libro Tibetano dei morti (Bardo Thödol) è un pilastro chiave del post-esotismo. In che modo ha influenzato la sua opera? Ci sono altre connessioni con le culture asiatiche?
Il Bardo Thödol è senza dubbio un riferimento fondamentale del post-esotismo. Abbiamo ripreso l’idea poetica di un’esistenza che continua dopo la morte e l’abbiamo adattata alle nostre ossessioni e ai nostri interessi politici e narrativi, che nulla hanno a che vedere con la dimensione religiosa di questo testo sacro. Un  testo sacro che, ben inteso, amiamo enormemente e abbiamo sempre enormemente rispettato. Così come rispettiamo i monaci, i lama e i credenti del buddismo tantrico tibetano che spesso introduciamo nelle nostre storie. Curiosamente, il mio incontro con il Bardo Thödol è arrivato tardi, e quando ho scritto Des enfers fabuleux (il quarto segmento dei quarantanove che compongono il post-esotismo), avevo “presagito” il mondo dei monasteri, delle esistenze precedenti, della dolorosa catena delle esistenze, senza essermi ancora immerso nel Bardo Thödol. È un po’ come se questo incontro fosse stato scritto in anticipo sul mio percorso di scrittore. È vero che ancor prima di esser pubblicato ero in contatto con le culture asiatiche, per una naturale attrazione culturale e anche per la pratica delle arti marziali giapponesi. Posso aggiungere semplicemente che ho soggiornato a lungo in Asia e che è stata una parte importante della mia vita, così come lo sono stati gli influssi che ho potuto ricevere. In particolare ho vissuto per anni nel sud della Cina, a Macao. In occasione di  un semestre in una residenza di scrittura in Giappone ho acquisito un’ampia conoscenza dello shintoismo. I mistici asiatici sono meravigliosamente compatibili con il nostro mondo post-esotico che è un incubo in cui si verificano moltissime allucinazioni non asiatiche.

ⓢ Nelle opere post-esotiche troviamo spesso un quadro post-apocalittico, o mi verrebbe da dire post-postapocalittico. Gli scrittori post-esotici non sembrano interessati a descrivere le origini della catastrofe (che sia di natura umana, ambientale, nucleare). È corretta questa affermazione?
Sarebbe noioso e troppo “fantascientifico” soffermarsi sull’apocalisse, sulla catastrofe. Personalmente non mi sento in grado di descriverlo in modo originale e convincente. In diversi libri si parla  della «guerra nera», che avrebbe preceduto il tempo in cui si muovono i nostri personaggi. Qualche episodio di guerra o di pogrom, sotto forma di ricordi e ossessioni, appare qua e là, ma abbiamo sempre preferito mettere in scena la miseria del dopo. I nostri libri non presentano grandi folle, ma di solito pochi individui sopravvissuti. Un notevole abisso temporale li separa da ciò che ha portato alla virtuale scomparsa della specie umana. Sono pochi di numero o sono soli tra le rovine, e talvolta in paesaggi post-rovina In verità, mi sembra molto più interessante seguire personaggi che si confrontano con la solitudine, la mancanza  di cibo, il disagio, la sopravvivenza senza prospettiva, piuttosto che mettere in scena supereroi che attraversano un cataclisma. Le nostre finzioni sono molto più intime dei film catastrofici. Permettono al lettore di immedesimarsi in persone miserabili che non hanno pretese di “superumanità” e che, al contrario, si percepiscono come “subumane”. Le gioie, le pene e le vicissitudini di questi personaggi sono molto limitate. Le speculazioni sugli eventi storici che hanno portato alla fine dell’umanità non li toccano, sono attenti (e noi con loro) solo alla propria condizione, alla propria sopravvivenza. È il caso di Kronauer in Terminus radioso o di Breton ne Le ragazze Monroe.

ⓢ Ci potrebbe essere spazio in futuro per un’analisi o narrazione dell’apocalisse precedente agli eventi descritti dal post-esotismo?
Credo di no. Lo lascio agli scrittori di fantascienza, una categoria letteraria che ci sta molto a cuore, ma alla quale non apparteniamo.

ⓢ Mi piacerebbe anche inquadrare il tema politico/ideologico alla base de Le ragazze Monroe. In generale, sia l’ideologia dei personaggi presenti nelle opere post-esotiche, sia l’immaginario politico, sembrano rifarsi al comunismo o al fallimento dello stesso, mentre assistiamo ad una totale scomparsa del capitalismo e una visione anticapitalista in generale. Qual è il motivo di questa scelta?
I prigionieri che ho menzionato sopra, e che sono al centro del nostro materiale narrativo, hanno partecipato a una feroce lotta armata contro il sistema capitalista in generale, e si rifanno a un’ideologia che può essere definita, all’incirca, comunista, libertaria ed egualitaria. Senza fare affidamento sui regimi comunisti degenerati, come ha mostrato l’Unione Sovietica in primo luogo, ne hanno condiviso i sogni fondanti, la concretizzazione storica di una società egualitaria, fantasticata nella forma di una vasta comune globale di lavoratori, felice, fraterna e senza conflitti. L’immaginario post-esotico rimanda a questa utopia, mai avveratasi, mai messa in pratica, e al contempo rimanda anche a un’amarezza di fondo: il sogno è irrealizzabile, ma bisogna crederci disperatamente, e sempre, altrimenti la lotta non avrebbe alcun senso. Questo duplice pensiero anima i discorsi dei nostri personaggi e le loro azioni. È la “morale proletaria” di Kronauer, la “fedeltà ideologica” delle ragazze di Monroe, di Kaytel e persino di Breton. È evidente che l’esperienza sovietica assuma in questo tutta la sua importanza: tanto per il riferimento alle speranze mondiali che essa suscitava nei suoi primissimi anni di esistenza, quanto per il riferimento all’abominio stalinista, ma anche per la sua persistenza come eroica opposizione al nazismo, e poi, dagli anni Cinquanta, come un singolare territorio, non capitalista, fondato su sogni irrealizzati, con residui dell’entusiasmo rivoluzionario degli inizi. Gli scrittori post-esotici si sono trovati in sintonia con questa società bizzarra, improbabile, molto meno soffocante che ai tempi di Stalin, intrisa di un folklore multietnico, marxista-leninista, terzomondista, operaista. Era l’Urss che ho conosciuto molto da vicino durante la mia giovinezza. I nostri libri sono irrigati da queste acque potenti, è il loro lato autobiografico – un’autobiografia ovviamente trasformata dalle fantasie della finzione narrativa, come l’autobiografia asiatica. Un’ultima osservazione: i miei primi libri sono stati pubblicati in un momento storico in cui la scomparsa dell’Urss era impensabile. Furono quindi scritti nello spirito del dissenso che veniva espresso nella Russia sovietica, con un punto di vista critico e fantastico – come in Biografia comparata di Jorian Murgrave e Nave da nessun dove (Un navire de nulle part, 1986), ma senza mai rinnegare l’origine sovietica del discorso.

ⓢ Il movimento post-esotico ha sempre rifiutato di collocarsi all’interno di una tradizione letteraria. Tuttavia spesso abbiamo sentito parlare di questo “realismo socialista magico”…
È una battuta scherzosa. Ovviamente non può esserci coesistenza tra realismo magico (prevalentemente sudamericano) e realismo socialista (strettamente sovietico). Allo stesso tempo, credo che il post-esotismo sia una possibile sintesi di queste due scuole letterarie. Una delle possibili sintesi. I grandi autori russi sovietici ne esplorarono altri, e li cito perché sicuramente ero sotto la loro influenza prima di cominciare a scrivere seriamente: da una parte Andrei Platonov, dall’altra Mikhail Bulgakov. Entrambi sono stati grandi precursori del realismo magico, anche se hanno lavorato su materiale sovietico, e specialmente in Platonov, con un onirismo comunista estremamente originale. Mi piaceva leggerli, così come mi piaceva leggere gli autori realisti magici sudamericani. E come amavo leggere, ma molto prima, i surrealisti. In sintesi, nell’ “oggetto post-esotico” ci sono molte fonti letterarie, cinematografiche, pittoriche e musicali. Anche se ci rifiutiamo di sottoscrivere una specifica tradizione letteraria, non è una costruzione emersa ex nihilo.

ⓢ In varie interviste ha parlato di un cosiddetto “umorismo del disastro”. In cosa consiste?
L’umorismo del disastro si basa sull’autoironia e sull’autodenigrazione. I personaggi parlano di sé sminuendosi, ma accettando tale inferiorità che loro stessi sottolineano e che li fa ridere. È un umorismo  intimo, “tra sé e sé”, Prendiamo in considerazione il fallimento degli ideali e delle strutture ugualitariste , il fallimento di ogni umanesimo, il fallimento del progressismo, il fallimento dei nostri sogni, e ci collochiamo pienamente all’interno di queste varie catastrofi. La risata che ne scaturisce non è nemmeno quella di una vittima, la questione non è prodursi in lamenti. È invece, e senza amarezza, la constatazione di una sconfitta umana che abbiamo profondamente integrato nel nostro comportamento, e soprattutto nella nostra espressione, nel nostro linguaggio. L’umorismo del disastro – o umorismo dei campi di internamento – fiorisce nella prigione immaginaria in cui sono rinchiusi i prigionieri che sono al centro del post-esotismo. È senza speranza, lucido, ma non è disperato e non si lamenta. Il miglior esempio di ciò è la caratterizzazione dei personaggi-narratori come sub-umani (o Untermensch, termine usato dai nazisti per riferirsi a ebrei, zingari e slavi) o scarafaggi. È un’identificazione che avviene in maniera naturale e senza discussioni di tipo metafisico. E con una certa divertita perfidia. L’umorismo del disastro attraversa spesso il dipanarsi delle frasi, i dialoghi, le situazioni.

ⓢ Spesso viene interrogato sulla fine del costrutto post-esotico, cosa succederà dopo la pubblicazione del 49esimo e ultimo libro della sua opera. Ha già le idee chiare sulla sua conclusione?
Sto lavorando all’ultimo tassello della lunga performance post-esotica, un’opera che è essa stessa una performance: non un libro, ma un insieme di 343 taccuini “bardici”, come usciti dal Bardo, contenenti rubriche che si ripetono regolarmente, fotografie di un luogo già completamente fantasma (il Porto Interno di Macao), storie oniriche e una grande quantità di testi. Il tutto si intitolerà Ritorno al bitume e si concluderà con la frase “qui mi taccio» E poi tacerò.

ⓢ Come pensa venga percepito il movimento post-esotico nella letteratura francese?
Non saprei. Non oso avventurarmi in questo campo. Non spetta a me parlarne.