Cultura | Libri

Anne Sexton non è l’ennesima poetessa suicida

È uscito il 27 maggio Il libro della follia, raccolta di poesie di un’autrice tanto tormentata quanto capace di scrivere versi lucidi e brillanti.

di Francesca Faccani

Se chiedi a un giovane scrittore o poeta perché scrive, le risposte più probabili che riceverai saranno qualcosa tipo «scrivo perché devo», «scrivo perché non so cosa penso finché non leggo ciò che dico» (questa l’ha detta veramente Flannery O’Connor), o forse la peggiore di tutte, «scrivo per non impazzire». Una poetessa, però, scriveva veramente per non impazzire: a una seduta, lo psicanalista le aveva passato foglio e penna suggerendole di racchiudere i suoi pensieri depressivi, maniacali, bipolari, li aveva tutti, sotto forma poetica. Subito lo guarda male, aveva appena finito un incarico come modella, e gli risponde che l’unica cosa in cui sarebbe stata brava era prostituirsi. Poi ci prova, le piace e fa domanda per iscriversi a un seminario di poesia tenuto dal celebre poeta Robert Lowell, sicura però che non avrebbe apprezzato le sue poesie e che sarebbe rimasta a casa a piangere per giorni interi. Invece, Lowell le risponde che i componimenti che gli ha mandato gli piacciono molto, che anzi la invidia, e la accetta nel corso.

È il 1959 e quando Anne Sexton inizia il seminario di poesia è la più grande e l’unica a non essere iscritta all’università di Boston. L’aveva abbandonata anni prima per sposarsi con l’amico d’infanzia Kayo, un uomo molto normale e molto borghese, col quale ora ha due figli e un rapporto violento. Ma non è solo per questo che a lezione attrae tutta l’attenzione: modella quando il marito era nei militari, si presenta sempre ingioiellata, impellicciata, rossetto rosso perfetto, a volte anche ubriaca, faceva cadere i libri fuori dall’aula aspettando che qualcuno glieli raccolga. Era la compagna impertinente che, quando doveva recitare una sua poesia, parlava di masturbazione («Esiste qualche apparecchio per il mio cuore? / Ho solo un aggeggio che si chiama vibratore» scrive ne Il libro della follia, uscito il 27 maggio per La Nave di Teseo), mestruazioni, suicidio, – argomenti delicati ora, figuriamoci al tempo. Quell’anno il professore pubblica Life Studies, riconosciuta come una delle raccolte di poesia americana più importanti di tutti i tempi, e in una recensione qualcuno scrive che si tratta di “poesie confessionali”, perché ci sono tantissime rivelazioni personali, inconsapevolmente dando il nome a un genere. Dentro a questo genere ricadono anche le poesie di Anne Sexton, che qualche anno più tardi arriverà a dire di essere «l’unica vera poetessa confessionale».

Se la contenderanno in effetti lei e un’altra compagna di corso, Sylvia Plath. Le due, dopo lezione, vanno sempre a bere «tre o quattro o due Martini» e conversano su una pulsione freudiana in comune: «Parlavamo della morte con intensità bruciante, entrambe attratte da essa come due falene dalla lampadina della luce: la succhiavamo», scrive in una lettera. In due contano innumerevoli ricoveri psichiatrici e più di quattro tentativi di suicidio, che Sexton esplora brillantemente nella sua poesia “Desiderando la morte”: «Ma i suicidi hanno una lingua speciale / come i falegnami, vogliono sapere quali attrezzi / non chiedono mai perché costruirli», più in là «lei mi aspetta, anno dopo anno / per cancellare dolcemente la vecchia ferita». Rimarranno in contatto, anche se Sexton le risponderà sempre di meno perché nel frattempo pubblica la prima raccolta di poesie, From Bedlam and (part) way back, che va molto bene e continua a mandarne altre al New Yorker e al Paris Review. Tanto che quando sente del suicidio dell’amica nel 1966, le dedica il componimento “La morte di Sylvia”, contenuto in Live or Die (da noi mai pubblicato), che le farà vincere il Pulitzer l’anno successivo. Nella poesia scrive: «Ladra! / come ci sei strisciata dentro / scivolata giù da sola / nella morte che volevo da tanto e così tanto / la morte che entrambe dicevamo di avere superato».

Nessuno si aspettava che una raccolta come Live or Die potesse vincere il premio di poesia più importante d’America. Al tempo ancora a tutti gli effetti una casalinga di classe media e poetessa a tempo perso, nel suo libro Sexton scoperchia i dogmi della sua classe e status, dichiara di essere incapace di essere madre, moglie e mentalmente stabile. Nel libro che raccoglie le frasi dei giudici del premio Pulitzer alla poesia ce n’è una su Sexton: «in ogni sua poesia ci dice quanto è pazza e non diventa solo monotona, ma anche incredibile». In Live or Die lei riversa i suoi traumi e pensieri maniacali, come le aveva insegnato a fare il suo psicanalista, su un piano metaforico e biblico, «comprendendo la malattia della sua cultura attraverso la sua», ha scritto una volta una critica. Il libro affronta argomenti come “Le mestruazioni a 40 anni”, una poesia in cui dice che equivalgono alla morte per una donna nella società; i rapporti extraconiugali, come in “Al mio amante che torna da sua moglie“, che è «la somma di te e dei tuoi sogni / montala come un monumento, gradino per gradino / Lei è solida. / Quando a me, io sono un acquerello / mi dissolvo». Poi la violenza coniugale, la morte, ancora, il sollievo dei barbiturici e dell’alcol. È come avere di nuovo vent’anni e sorprendersi mentre si legge Alda Merini per la prima volta, ma Sexton sa essere più brutale, nelle sue immagini, e allo stesso tempo più mistificata.

Anne Sexton in spiaggia nel 1940, courtesy of Getty

Lo è ancora di più in Il libro della follia, che pubblicherà qualche anno dopo, dove raccoglie composizioni in forme diverse: poesie, storie, poemi sulla vita di Gesù, «Dio lo sfottono solo quelli che ci credono», e lei ci credeva molto. Nelle poesie descrive con le immagini più delicate ed esatte la complessità della maternità: «Mentre il fiume fra di noi / si restringe tu fai ginnastica ritmica», «ti chiedo ragguagli e tu / tu stai per cucirmi un sudario, / brandisci il pollo arrosto del lunedì / e lo sbudelli col pollice». Ne parla anche nel racconto “Il ballo della giga”, dove parte da «Sapete come si fa alle feste, arriva il momento durante la conversazione in cui qualcuno si alza e va a preparare un altro drink», e mentre lo aspetta vede una sedia, e si ricorda delle cene a tavola con la madre che la faceva piangere e il padre sempre ubriaco.

Con la vittoria del Pulitzer la vita di Sexton non cambia più di tanto, diventa semplicemente ancora di più sé stessa: aumentano le presentazioni, alle quali si presenta barcollando ubriaca sul palco, gli amanti, le cattive poesie, l’alcol, i sonniferi – a volte dice alle amiche di aver dormito per 3 giorni interi perché «non voglio vivere: in vita, sì, ma non so come», scrive un giorno all’agente, e nella stessa lettera allega un disegnino dove si ritrae triste e dice di aver bisogno di qualsiasi pillola e di una permanente. Prova a reinventarsi, sperimenta col teatro, fonda un gruppo rock col quale recita le sue poesie, chiamato Anne Sexton & Her Kind, e che si scioglie miseramente dopo qualche performance definita imbarazzante.

Anche il suo suicidio, come la sua vita, finisce per essere piuttosto plateale: tornando dalla casa dell’agente, prende la pelliccia e un bicchiere di vodka con ghiaccio, scende in garage e accende il motore della macchina. Forse dopo la sua morte abbiamo un po’ dimenticato Sexton perché lontana anni luce dalla classica immagine che abbiamo dei poeti e ci spaventa; lei, bellissima, ingioiellata, senza laurea, abusiva col marito e con la figlia. Forse invece Plath ci piace perché incarna lo spirito della poetessa, remissiva, studiosa, sempre vittima, che cerca rivincita nella poesia per quello che non ha avuto in vita ­– diceva di scrivere perché «non posso essere soddisfatta col lavoro colossale di vivere e basta». Anne Sexton, al contrario, nella vita e nella poesia ha dato spettacolo di sé, fa paura perché non è più la poetessa nella sua cameretta, ma è là fuori, a bere e a cercare consolazioni, e non per questo meno poetessa.