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L’importanza di Angelo Guglielmi nella storia della tv

È morto a 93 lo storico direttore di Rai3, l'uomo che cambiò la storia della televisione italiana inventando format e lanciando personalità ancora oggi protagoniste della nostra tv.

di Francesco Gerardi

Che Angelo Guglielmi fosse un personaggio d’altri tempi lo si capisce da una sua frase che tutti in queste ore stanno citando. È tratta dalla sua autobiografia, che poi autobiografia non era, Sfido a riconoscermi. Racconti sparsi e tre saggi su Gadda. Scrive Guglielmi, di sé e quindi della cosa che più lo aveva interessato e appassionato nei suoi 93 anni di vita: «Io non ho mai scritto di me, ho in odio l’autobiografia ritenendola il male degli ultimi trent’anni della narrativa italiana». Chissà come ha vissuto, Guglielmi, gli anni dell’autofiction e del memoir come forma certamente dominante di racconto, in Italia e non solo. Lui che, come ha ricordato Fabio Fazio, uno dei suoi allievi e prediletti, aveva rivoluzionato la televisione italiana «rendendola contemporanea e imponendo una rigorosa linea narrativa alle cose che faceva: la tv come racconto della realtà. Gli devo moltissimo. “La cultura non è una cosa ma un modo di fare le cose”. Questa la sua lezione più importante».

I sette anni che cambiarono la televisione italiana e fecero Rai3 per come la conosciamo oggi sono stati i sette anni di Guglielmi alla guida di quello che all’epoca ancora si chiamava “terzo canale”, definizione precisa non solo dal punto di vista cronologico ma anche da quello della considerazione e della rilevanza. Nel 1987 Rai3 non era ancora il feudo rosso che sarebbe di lì a poco diventato, il direttore era Giuseppe Rossini (fanfaniano tra i fondatori della rete), il vicedirettore Sandro Curzi già sognava TeleKabul, il Tg3 lo faceva Biagio Agnes e il terzo canale era seguito meno di una tv locale. Quello che Guglielmi riuscì a fare in quel settennato diventato quasi mitico (non per niente raccontato in un libro intitolato Senza rete. Il mito di Rai3 1987-1994) è sparso tra le testimonianze dei protagonisti che lui stesso scelse per raccontare quella storia, da narratore quale si è sempre considerato. Corrado Augias, assieme a Donatella Raffai conduttore di Telefono giallo, cercava di spiegare ai detrattori cosa fosse la tv-realtà che si andava costruendo in quegli anni e lo faceva con la sfrontatezza che solo quella generazione di “senza rete” si è potuta permettere: «Non è tv-verità», spiegava Augias nell’introduzione del trentesimo episodio di Telefono giallo, quello dedicato all’omicidio di Giancarlo Siani. La differenza era ed è sottile, percepibile solo dall’occhio del narratore: la verità si svela, la realtà si racconta ed è quindi, per forza di cose, anche solo in parte, un artificio. Lo aveva capito, Guglielmi, ai tempi del Gruppo 63, da quel primo incontro con Nanni Balestrini che gli annunciava la riunione fondativa all’Hotel Zagarella di Santa Flavia, negli anni in cui la sua passione erano ancora, soprattutto, i libri. Da critico letterario possedeva un altro dei doni che negli anni la nostra cultura ha perso: quello per la stroncatura. Memorabile una scritta su La Stampa il 13 febbraio 1988: recensendo Sodomie in corpo 11 di Aldo Busi, Gugliemi apriva il suo pezzo dicendo che «le due ultime opere narrative di Busi, di cui pure non mi sfuggono i meriti e le qualità, vorrei non fossero mai uscite. Perché? Perché Busi è un vero scrittore (talvolta grande) che scrive libri illeggibili».

In una dimensione narrativa Guglielmi cercò di incastrare qualsiasi aspetto del nazional popolare: la politica, il calcio, il crimine, il processo. Se a introdurre il talk show politico in Italia è stato certamente Giuliano Ferrara con il suo Radio Londra, a renderlo il fondamentale genere narrativo della Seconda e della Terza repubblica è stato senza dubbio Guglielmi. E anche in quel caso, il suo principale contributo fu una scelta di casting: fu lui a decidere che a condurre Samarcanda sarebbe stato un giovane sconosciuto, carismatico e vanitoso di nome Michele Santoro. Fu sempre lui a scegliere Piero Chiambretti, altro sconosciuto dal futuro radioso, per «lanciare il divano in piazza e andare ai convegni dei partiti raccontando il dietro le quinte della politica», come ha raccontato lo stesso Chiambretti al Corriere. Senza Complimenti per la trasmissione Il portalettere oggi non esisterebbero i reportage di Zoro di Gazebo prima e di Propaganda live poi dai tragicomici eventi della politica italiana. È una linea ereditaria, quella che unisce Guglielmi ai protagonisti di un pezzo della tv contemporanea, più diretta di quanto si possa immaginare. Ancora oggi il palinsesto di Rai3 vive di rendita su idee avute da Guglielmi in quel settennato: Un giorno in pretura andò in onda la prima volta nel 1988, cambiando per sempre il concetto di ciò che nella Repubblica era pubblico e accessibile al pubblico; Chi l’ha visto nel 1989 («Uno dei pochi strumenti che una madre proletaria ha per fare pressioni sulle istituzioni», arriverà a dire Carlo Freccero per descrivere il peso che il programma arrivò ad avere nell’opinione pubblica italiana, con riferimento specifico alla scomparsa di Emanuela Orlandi); Blob è dello stesso anno; Storie maledette è del 1994. Serena Dandini ha raccontato a Repubblica che quando lei, Valentina Amurri e Linda Brunetta andarono da Guglielmi a spiegargli La tv delle ragazze, lui ammise che «’sta cosa non la capisco ma vedo la passione, fatela»: funzionava così, quando ancora ci si poteva prendere dei rischi.

Come tutti gli autori, il pregio principale di Guglielmi fu quello di intuire cosa sarebbe successo in futuro. Il portalettere fu il primo programma in cui un comico, Piero Chiambretti, incontrava un Presidente, Francesco Cossiga. Fu l’inizio dell’erosione del confine naturale tra i due ruoli, il primo incontro di due figure, il comico e il politico, che da quel momento in poi si sarebbero avvicinate fino a fondersi. Delle sue intuizioni Guglielmi ha sempre rivendicato il possesso e preteso il riconoscimento, come qualsiasi romanziere fa con l’opera della sua fantasia. Ma mai prendendosi sul serio, perché per lui la cultura era, appunto, non le cose che si fanno ma il modo in cui si fanno. «Ironico fino all’autoironia, orgoglioso senza mai essere vanitoso, ma senza mai neppure essere remissivo», ha scritto di lui Elisabetta Sgarbi. Di sé, Gugliemi ha sempre fatto, fino alla fine, una descrizione che era il miglior omaggio alla tv-realtà, non verità, di cui è stato l’inventore. La sua vita la considerava come «un piccolo breviario laico, da prendere e abbandonare all’occasione, costituito di ricordi autobiografici, giudizi e considerazioni sulla letteratura italiana da metà del secolo scorso a oggi, sulla televisione, sul cinema, sulla politica (che sono i quattro ambiti in cui mi sono impegnato nella mia lunga carriera di lavoro)».