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Martin Scorsese ha scritto un editoriale sul New York Times in cui spiega perché Misery è il miglior film di Rob Reiner In un commosso editoriale, Scorsese ha individuato nel thriller del 1990 l’apice della filmografia del collega, ricordando la loro amicizia.
Dopo il documentario su Diddy arriverà un documentario sui figli di Diddy che parlando di Diddy Justin e Christian Combs racconteranno il rapporto col padre in una docuserie che uscirà nel 2026 e di cui è già disponibile il trailer.
La crisi climatica sta portando alla velocissima formazione del primo deserto del Brasile La regione del Sertão sta passando da arida a desertica nell'arco di una generazione: un cambiamento potenzialmente irreversibile.
L’episodio di Stranger Things in cui Will fa coming out è diventato quello peggio recensito di tutta la serie E da solo ha abbassato la valutazione di tutta la quinta stagione, nettamente la meno apprezzata dal pubblico, almeno fino a questo punto.
Il progetto europeo di rilanciare i treni notturni sta andando malissimo Uno dei capisaldi del Green Deal europeo sulla mobilità, la rinascita dei treni notturni, si è arenato tra burocrazia infinita e alti costi.
Un’azienda in Svezia dà ai suoi lavoratori un bonus in busta paga da spendere in attività con gli amici per combattere la solitudine Il progetto, che per ora è solo un'iniziativa privata, prevede un’ora al mese di ferie e un bonus di 100 euro per incentivare la socialità.
Diverse celebrity hanno cancellato i loro tributi a Brigitte Bardot dopo aver scoperto che era di estrema destra Chapell Roan e altre star hanno omaggiato Bardot sui social per poi ritirare tutto una volta scoperte le sue idee su immigrazione, omosessuali e femminismo.
È morta la donna che restaurò così male un dipinto di Cristo da renderlo prima un meme, poi un’attrazione turistica Nel 2012, l'allora 81enne Cecilia Giménez trasformò l’"Ecce Homo" di Borja in Potato Jesus, diventando una delle più amate meme star di sempre.

Perché attaccare la Merkel è attaccare l’ordine liberale

La cancelliera, al potere da 13 anni, è diventata un simbolo di questa Europa e questo dà fastidio a Trump e ai populisti.

12 Luglio 2018

Se crolla Angela Merkel crolla anche l’ordine liberale che tiene su il mondo dal Dopoguerra? Il primo a pensarlo, speranzoso, è Donald Trump, il disordinato in chief degli Stati Uniti d’America. Altrimenti non si spiegherebbe la sua ostinazione nell’attaccare la cancelliera tedesca e la Germania, come ha fatto all’ultimo vertice della Nato. Non solo ha accusato la Germania di essere «schiava della Russia», ma la lettera più velenosa tra le tante che aveva inviato agli alleati in vista del summit era stata recapitata proprio alla Merkel: «Come abbiamo discusso durante il nostro incontro nell’aprile scorso, la frustrazione cresce negli Stati Uniti, perché gli alcuni alleati non hanno fatto quel che avevano promesso. Gli Stati Uniti continuano a destinare più risorse alla difesa dell’Europa quando l’economia del continente, inclusa quella della Germania, sta andando bene e le sfide alla sicurezza abbondano».

L’incontro di aprile: si ricordano soltanto musi lunghi, sguardi lontani, sguardi severi, ancora più lugubri se paragonati alle feste riservate a Emmanuel Macron (tanto sguaiate quanto inutili). La minaccia più diretta tra le tante che il presidente americano ha lanciato nella “trade war” che ha ingaggiato con i partner europei e il Canada è rivolta al mercato delle automobili, il cui cuore batte in Germania.

L’attacco più esplicito alla leadership di un Paese straniero – si chiama ingerenza, ma soltanto quando conviene – formulato da Trump è diretto contro la Merkel: «Il popolo tedesco si sta ribellando al suo governo», ha twittato il mese scorso. Attaccando l’esecutivo Merkel su immigrazione e criminalità: «È stato fatto un grande sbaglio in tutta Europa lasciando entrare milioni di persone che hanno cambiato in modo brutale e violento la sua cultura!». Poco dopo, un altro tweet: «La criminalità in Germania è cresciuta del 10 per cento (le autorità non vogliono segnalare questi reati) da quando i migranti sono stati accolti». In poche ore, le esternazioni di Trump sono state smentite: i dati della Repubblica federale mostrano che nel 2017 il tasso di criminalità in Germania è stato il più basso degli ultimi 25 anni; il governo tedesco non è in un momento scintillante, ma se si guardano le rilevazioni gli alleati della coalizione che si ribellano alla Merkel sono molto meno popolari della cancelliera: vengono chiamati “irresponsabili”; la questione migratoria ha certamente cambiato la politica europea, come dimostra anche l’ossessione italiana per un’emergenza migratoria che non c’è, ma che ci sia o no una crisi culturale il dibattito è quantomeno aperto. Ma in questa stagione in cui il percepito è più importante di qualsiasi statistica, gli attacchi di Trump mostrano che per portare avanti il progetto di destabilizzazione dell’ordine liberale, in nome di nazionalismi vari e di una generale fascinazione per il cambiamento che distrugge (chissà se mai costruirà), bisogna colpire la colonna portante di questo ordine: la Merkel.

Tredici anni di Merkel e di antimerkelismo

Di fratture, nel mondo liberale, ce ne sono state molte. L’occidente ha litigato un po’ su tutto, dalle guerre alle soluzioni per gli choc finanziari passando per le questioni ambientali, sociali, etiche. Questa volta il distacco appare più profondo perché non si discute più di metodi, di politiche, ma di direzione: dove stiamo andando? La vittoria di Donald Trump in America ha posto il quesito in modo diretto e brutale, che è un po’ la cifra di questo presidente: se volete protezione meritatevela contribuendo alla Nato, se volete esportare o importare pagate i dazi, se volete l’ambiente più pulito non inquinate, cominciate pure da soli. Trump pretende di vivere in camere separate dagli europei, è convinto che la presenza americana sia stata data per scontata, e che per ridare valore a questa alleanza ci sia bisogno di un distacco. Non è detto che poi si torni insieme, questo Trump lo dice chiaramente, e anzi si guarda intorno senza nascondersi, si fa lusingare dalle promesse vaghe di un dittatore come il nordcoreano Kim o si fa convincere dalle rassicurazioni di un artista della dissimulazione come il russo Putin.

Merkel Trump

Il sentimento anti Merkel non è nato con Trump né in questi ultimi anni di ordine liberale sotto attacco. La Merkel era già finita prima di cominciare (è cancelliera dal 2005): troppo cauta, troppo riservata, troppo calcolatrice, con quell’uccisione del padre politico Helmut Kohl che conferiva alla sua immagina un’ulteriore nota, una nota sinistra, non ci si può fidare dei cecchini. La Germania usciva dai fragorosi anni di Gerhard Schröder e del branco socialdemocratico, molte idee, molte riforme, molte mogli, gli anni Novanta prosperosi e libertini: la Merkel pareva una parentesi di cautele e indecisioni – è stato coniato il termine “merklen”, vuol dire non decidere mai nulla – pronta a chiudersi il prima possibile.

Sappiamo come è andata: la cancelliera è al potere da tredici anni, nel frattempo l’Europa è passata in mezzo alla sua grande depressione, la Germania e la sua determinazione rigorista hanno quasi portato all’espulsione della Grecia dal consesso europeo, la prima exit imposta della storia (gli inglesi ci avrebbero poi pensato da soli a costruirsene una in proprio), e intanto si è consolidata la sensazione che Berlino badi solo a se stessa, prima la Germania, l’interesse europeo è soltanto un orpello, un ostacolo, nei casi più fortunati una figura retorica. La regina d’Europa, seduta sull’economia più grande del continente, è una matrigna, non fatevi ingannare dai suoi modi cortesi o dai tailleur color pastello: rappresenta l’egoismo tedesco, il virus che impedisce a tutti i suoi partner di crescere più forti e più autonomi.

Se crolla la Merkel crolla tutto?

Ma tanto adesso la Merkel cade, no? Se si mettono insieme le copertine dei giornali tedeschi e internazionali dell’ultimo decennio, si ritrova la cancelliera con i baffetti di Hitler, la cancelliera che fa le smorfie, la cancelliera con lo sguardo ferito, la cancelliera a testa in giù che precipita, la cancelliera che dà le spalle come se stesse uscendo di scena, per non parlare dei nomignoli e delle foto al mare e dell’assenza di sex appeal (meglio detto: “inchiavabile”). L’antimerkelismo è diventato un genere giornalistico, questa è davvero l’ultima sfida, l’ultimo assedio, la Merkel sta cedendo, la Merkel cade.

Poi è caduto tutto il resto. E la Merkel, che al quarto mandato non ci pensava poi tanto, ha deciso di rimanere. Da matrigna è diventata madre, lei che madre non è, ma materna sì, lo è moltissimo. Ha fatto una campagna elettorale nello scorso autunno scandita da una sua foto da bambina e da slogan semplici, stiamo bene, staremo bene, fidatevi, e mentre attorno si alzavano urla nazionaliste e distruttive lei calma ha detto: rimbocchiamoci le maniche, perché è arrivato il momento di fare da soli. Di fare senza l’America. E’ in questo gesto domestico, rimbocchiamoci le maniche che c’è da lavorare, che la Merkel si è ritagliata il ruolo di garante del nostro modo di vivere, di un liberalismo costruito nella quotidianità, fatto di frontiere aperte perché nell’altro, nello straniero, ci sono risorse non soltanto rischi; fatto di globalismo, perché se hai vissuto con un muro all’orizzonte e un giorno è venuto giù e hai visto quanto cielo c’era di là e non lo sapevi neppure immaginare, non vorrai mai più reticolati a ostruire il tuo sguardo.

Allora, se crolla Angela Merkel crolla anche l’ordine liberale che tiene su il mondo dal Dopoguerra? C’è chi è convinto che la quotidianità del liberalismo avrà, alla lunga, il sopravvento: i vantaggi di un mondo globale si scoprono, in questa stagione in cui le libertà ci stanno venendo a noia, stando fermi in coda alla dogana per ore, o vedendo raddoppiati i prezzi di quell’unico modello di jeans che sta a meraviglia. Ma ecco, intanto che si aspetta, nel mezzo di questo “alla lunga”, se c’è la Merkel è meglio.

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