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Andy Warhol, Prince e la differenza tra ispirazione e appropriazione

L'attesa sentenza della Corte suprema americana sulla causa tra la fotografa Lynn Goldsmith e la Fondazione Andy Warhol potrebbe cambiare per sempre il modo in cui utilizziamo le immagini su internet e non solo.

di Angela Bubba

Che il copyright sia un territorio insidioso è cosa nota. Com’è cosa nota che le posizioni sono spesso inconciliabili e che finora non si è raggiunta alcuna sintesi pacifica, o per lo meno civile. Una delle ultime vicende vede schierata la regista e fotografa Lynn Goldsmith contro la Fondazione Andy Warhol, all’interno di una disputa che pare infinita e che inizia all’indomani della scomparsa di Prince, nel 2016. La storia è tanto semplice quanto capziosa: Goldsmith, dopo aver realizzato un ritratto fotografico del cantautore alcuni decenni fa, l’ha concesso a Vanity Fair come modello per un’opera commissionata a Andy Warhol, in breve diventata celebre, la stessa che ritrae il viso di Prince su uno sfondo arancione, con occhi e capelli scuri ed incarnato viola. Goldsmith ha tuttavia ceduto in licenza l’immagine per un utilizzo limitato (e in cambio di 400 dollari), come ribadirà anche alla morte di Prince, quando la Fondazione Warhol ha acconsentito alla riproduzione dell’opera per la copertina di una rivista musicale “celebrativa”, intitolata The Genius of Prince, edita sempre da Condé Nast (lo stesso editore di Vanity Fair), che ha pagato alla Fondazione circa 10 mila dollari in cambio dell’utilizzo dell’immagine. In questa seconda pubblicazione, a Goldsmith non è arrivato neanche un soldo. Questa la miccia che ha fatto esplodere la bomba, potremmo dire, dato che la diatriba è diventata subito accesissima, così tanto che la Fondazione ha citato Goldsmith in giudizio ed ha iniziato a invocare il “fair use” come una sorta di mantra: in sostanza, quello di Andy Warhol è stato un atto creativo, secondo la Fondazione, le modifiche alla foto sarebbero quindi consentite e nessun diritto d’autore è stato leso.

Oggi, dopo sette anni di battaglie giuridiche, con un tribunale che ha sposato la visione della Fondazione Warhol e una corte d’appello che invece l’ha bocciata, la querelle è in discussione presso la Corte suprema statunitense, tenuta a pronunciarsi tra non molto su una questione delicatissima, il cui scioglimento potrebbe avere ricadute a livello mondiale. Il bivio è netto: c’è una parte che chiede maggiore elasticità nei confronti dei gesti trasformativi nel settore dell’arte visuale, altrimenti alcune opere già realizzate (non solo da Warhol, fa intendere la Fondazione) sarebbero «presumibilmente illegali», eventualità che «potrebbe portare alla rimozione di opere d’arte seminali dalla sfera pubblica». Ma c’è anche un’altra parte che chiede di fare attenzione, specie per la concessione in licenza di lavori creativi: una sentenza che vada a discapito di questo aspetto – dice Goldsmith – svilirebbe le basi della normativa del copyright, rischiando l’estremo di un “all copying, no right”: “tutto copia, nessun diritto”.

L’articolo di Vanity Fair con l’opera di Warhol realizzata partendo dalla foto di Goldsmith
La copertina di The Genius of Prince, origine della causa tra la fotografa e la Fondazione

Da che parte sta la ragione, allora? Dove trovare la quadra e come procedere per sbrogliare una questione così spinosa? Prima che un Salomone si esprima col massimo della saggezza (si spera), ricordiamoci di alcuni fatti recenti in cui spiccano problemi assai simili, poiché lasciati in balìa di una regolamentazione ancora troppo carente, troppo arbitraria e troppo sfuggente. Per esempio il panamense Richard Prince (un altro Prince, neanche a farlo apposta) negli ultimi anni ha guadagnato cifre astronomiche vendendo opere prodotte sulla base di altre opere: praticamente foto sottratte – o scaricate, dipende da come vogliamo vederla – dall’account social della comunità di pin-up SuicideGirls, o della scrittrice Karley Sciortino o ancora della musicista Sky Ferreira. Più fresca è invece la faccenda dei software dell’intelligenza artificiale, letteralmente addestrati per prelevare da internet ingenti dataset d’immagini, perciò anche di opere d’arte: qui il caso limite è quello di Ammaar Reshi, designer della Silicon Valley che lo scorso dicembre, sfruttando i processi dell’algoritmo dell’AI, in sole 72 ore ha elaborato Alice and Sparkle, un libro illustrato per bambini, diventato virale su Twitter e ovviamente protagonista di inevitabili polemiche.

Ma c’è di che discutere anche a casa nostra, in Italia, se ripenso a quanto accaduto durante l’ultimo Sanremo, con Chiara Ferragni che prima di scendere la scalinata mostrava la stola in cima al suo vestito, della lucidissima seta bianca su cui campeggiava il claim “Pensati libera”, dall’influencer ricondotto al duo Claire Fontaine quando invece è da attribuire allo street artist Cicatrici.nere, e non a torto, anche solo basandosi sugli innumerevoli murales che attestano la paternità del motto, di questa specie di frase-mondo che da Bologna ha via via “esportato” anche all’estero. Comprensibilmente ferito dall’operazione – ben presto monetizzata dal mercato, tramite un “Pensati libera” replicato su T-shirt, borse, bracciali, tazze, cappellini e altre decine di gadget – Cicatrici.nere ha pubblicato sulla propria pagina Instagram un piccolo, acutissimo filmato, in cui vediamo la sua mano scrivere su una parete “Pensati merce”: una provocazione ma neanche tanto, forse più l’attestazione di quello che stiamo diventando, arte compresa, arte che finisce giorno per giorno dentro un tritacarne indistinto, un serbatoio in cui vendere pare più importante che creare, e dove sfruttare sembra quasi sinonimo di immaginare. In questo modo ogni cosa diventa più facile, è indubbiamente più veloce e più redditizia, ma è onesta? E, soprattutto, è legale?

La domanda ci riporta al punto di partenza, cioè alla diatriba Goldsmith-Fondazione Warhol. Per quanto originata da premesse diverse, inevitabilmente si aggancia allo scontro tra Ferragni e Cicatrici.nere, così come all’affare Richard Prince, Ammaar Reshi e a numerosi altri che sarebbe impossibile qui riportare. Il nodo cruciale è sempre lo stesso: dove finisce l’arte e dove inizia l’abuso? Fino a che punto può spingersi la libera espressione se intacca la precedente, libera espressione di qualcun altro? Cosa possiamo definire ispirazione e cosa appropriazione, se non vero e proprio furto? Cos’è copia, per riprendere l’interrogativo di Lynn Goldsmith, e cos’è diritto di non essere (platealmente) copiati?

Per questo sarà determinante la scelta della Corte suprema, perché le sorti del copyright potrebbero davvero cambiare, in una direzione oppure nell’altra, sia per riproduzioni su carta come su piattaforme televisive/digitali sia – non dimentichiamolo – per lo stesso mondo museale, attualmente in stato di forte agitazione. Come dovrebbe comportarsi infatti per “HOPE”, la famosissima opera che ritrae Obama ricavata da una foto di Mannie Garcia? E per la versione pixellata di Miles Davis rielaborata da uno scatto di Jay Maisel? Cosa dovrebbe farne di un Roy Lichtenstein creato a partire da un’immagine della casa editrice DC Comics? Lisa Lapin, del Getty, ha affermato con tono risentito che «i musei fanno molto di più che appendere quadri al muro», mentre il direttore del Brooklyn Museum, Arnold Lehman, ha dichiarato di considerare il lavoro di Warhol una pratica trasformativa, nonché di vedere i musei come «luoghi sicuri per idee non sicure»: aforisma che pare uscito dalla bocca di Oscar Wilde, senz’altro di grande effetto ma ahimè non risolutivo. In materia di copyright ci troviamo ormai di fronte a quesiti decisivi, legittimi e necessari, quesiti certo non più rinviabili, e a cui presto occorrerà rispondere.