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È stato ritrovato il pilot dei Griffin, che tutti pensavano fosse andato perduto 30 anni fa. La scoperta l'ha fatta un utente del sito Lost Media Community, che lo ha subito pubblicato su YouTube.
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I ministri di Trump hanno aggiunto per sbaglio un giornalista in una chat in cui si discuteva di bombardamenti in Yemen. E non un giornalista qualsiasi: il direttore dell'Atlantic Jeffrey Goldberg.
Hamdan Ballal, uno dei registi di No Other Land, è stato aggredito dai coloni in Cisgiordania e sequestrato dall’esercito israeliano. Al momento non si sa dove sia né in che condizioni versi.
Herbie Hancock ha detto che non fa un album da 15 anni perché si distrae continuamente con YouTube. «Sono vittima di questa cosa, ma che ci vuoi fare, è la vita», ha detto in un'intervista a Bbc.
Su YouTube è uscito il sequel di Leaving Neverland, il documentario sui presunti abusi sessuali commessi da Michael Jackson. Il regista è lo stesso e i "protagonisti" sono sempre Wade Robson e James Safechuck, i due uomini che accusarono Jackson nel 2019.
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Si è scoperto che prima di fare il ministro, Guido Crosetto ha lavorato con Marlene Kuntz e Afterhours. E di diverse altre band, grazie a un'associazione culturale chiamata Zaboom: lo ha raccontato in un'intervista a "Un giorno da pecora".

L’indagine sui genitori di Andrea Bajani

L’anniversario è un romanzo che deve molto alla poesia e prova a rispondere a una domanda insolita e difficile: si possono abbandonare i propri genitori?

29 Gennaio 2025

Dopo i libri sulla paternità e sull’universo materno, nell’ultimo saggio dedicato alle origini bibliche della psicanalisi, Massimo Recalcati tornava sul rapporto tra genitori e figli e scriveva: «La negazione del proprio frutto (il padre nega il figlio) o della propria provenienza (il figlio nega il padre) può generare solamente rovina». Si potrebbe dire, frettolosamente, che il nuovo libro di Andrea Bajani, L’anniversario (Feltrinelli), sia il tentativo di dimostrare che questa “rovina” potrebbe contenere anche una liberazione.

Distacco, cesura, separazione e abbandono sono sotto osservazione nel romanzo, con al centro la madre. Per questa ricostruzione, l’autore scorpora la figura della madre da quella più invadente del padre, nel tentativo di «estrarla da quell’oscurità per farne a tutti gli effetti il personaggio di un romanzo». La narrazione in prima persona si costruisce alternando sfumature emotive e scene emblematiche, frammenti di vecchi dialoghi e luoghi spogli e fatali, tantissimi silenzi e qualche ripensamento, è tutto così sviscerato da convincere il lettore di trovarsi davanti all’anatomia di un addio, all’autopsia di una relazione. In verità, l’illusione della radiografia è generata dalla scrittura, perché a guardare bene la memoria è sfaldata da lacune e mancanze, e nel riordinare i fatti e nel ripercorrere le cause del mondo andato in frantumi tantissimi pezzi sono andati persi: «di quelle telefonate non ricordo molto», «non ricordo nulla di quel pranzo», «non ricordo le ultime parole che mi disse».

L’indagine letteraria a ritroso sui propri genitori è un genere estremamente fecondo. Solo negli ultimi anni si sono dedicati a questa archeologia Antonio Franchini, col suo feroce memoir Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio), Emanuele Trevi con il sognante La casa del mago (Ponte alle Grazie), Annie Ernaux con il lucido Una donna (L’orma), Richard Ford con il nostalgico Tra loro (Feltrinelli), Donald Antrim con lo straziante La vita dopo (Einaudi). In Bajani ritroviamo elementi comuni a questi ritratti, in particolare i rovelli condivisi da tutti su ciò che ci si accorgere di non conoscere dei propri genitori: «Mi chiedo – domanda che non mi facevo allora – come passasse la giornata, che cosa facesse durante tutte quelle ore, quando mio padre era a lavorare e noi eravamo a scuola fino a metà pomeriggio». Ma si differenzia da tutti gli altri autori perché la domanda che tiene insieme L’anniversario è: «si possono abbandonare i propri genitori?». Di solito gli sforzi di memoria, gli scatti all’indietro per recuperare il passato tendono al ripristino, a tardive riconciliazioni, addirittura a perdoni fuori tempo massimo – e i testi sono attivati da un lutto, da occasioni per rileggere un tempo andato sotto la luce dolce del rimpianto («Credo che fossimo entrambi innamorati di mia madre», scrive di sé e del padre Annie Ernaux). In questo caso invece il materiale sembra ancora tutto incandescente (o troppo gelido), le ferite sono a malapena rimarginate, l’ombra del tabù dell’abbandono dei genitori impedisce di far emergere molto altro, tutto ciò che avviene dopo lo strappo.

I due modelli mitici, inevitabili punti di riferimento per orientarsi in questa storia, sono Edipo e il figlio prodigo del Vangelo di Luca. Entrambi i figli si scontrano con la famiglia, entrambi se ne allontanano. Il conflitto con i genitori, inevitabile per la vita adulta, invece di essere fisiologico e vantaggioso può bloccarsi, incancrenirsi, sia se i figli recepiscono come puro peso le vecchie generazioni sia se queste esercitano un potere dispotico, disciplina e sottomissione, esasperando la discendenza. Il figlio prodigo rompe ogni rapporto col padre, ma poi, spinto da utilitarismo ritorna a casa. Edipo uccide il padre non in senso metaforico. In Bajani, dove l’uccisione dei genitori è solo simbolica, siamo più vicini a questo mito che non prevede una riconciliazione ma un esilio perpetuo.

L’ultimo romanzo di Bajani – si dovrebbe forse leggerlo anche come una cesura rispetto alla sua produzione precedente? – è intimo e molto breve, centoventotto pagine, eppure più volte si avvertono interferenze con il monumentale La scuola cattolica di Edoardo Albinati. In tutti e due i casi emerge la necessità di un’opera di finzione per fare i conti con il passato, in entrambi i casi il linguaggio appare l’unico strumento capace di sondare ambienti, psicologie, volontà, desideri, e di cogliere tutto il contraddittorio meccanismo della violenza, in particolare quella maschile, tema cruciale in entrambi i libri. È la violenza quotidiana a far deflagrare il mondo, a lacerare i rapporti, a dividere, a scavare fossati nelle case, L’anniversario lo mostra in ogni paragrafo. Ma forse la vicinanza tra questi testi è più di tutto la conseguenza dell’origine comune dei due scrittori: Albinati e Bajani arrivano dalla poesia e sono in grado di ipnotizzare il lettore con la melodia delle frasi, tessendo una ragnatela che avviluppa il lettore fino all’ultima pagina, inebriandolo di ritmo, di capitoli composti da versi nascosti nella prosa, in Bajani non si contano frasi evocative come: «era scoppiato in un pianto senza fine, di fronte a cui tacevo, taceva l’inverno, taceva la neve». Ecco che dolore, sopraffazione fisica e psicologica trovano una riconciliazione non certo nella vicenda, non certo al livello della trama, ma nello stile, secondo quel miracolo ben descritto sempre da Massimo Recalcati ancora nel saggio La Legge del desiderio: «Non si tratta di cancellare le ferite ma di trasformarle in poesia».

La trasformazione in poesia della sofferenza è l’unica forma in cui oggi è possibile districarsi in una tendenza trasversale a narrare i traumi che coinvolge tutte le arti, dal rap all’arte contemporanea, dalla letteratura ai documentari, dai podcast ai film, dalle serie tv alle interviste giornalistiche. La bussola per orientarsi in questa rievocazione del dolore è far caso solo alla forma con cui lo si restituisce, qui è lo spiazzante odore di mare che entra dai finestrini sull’Aurelia descritto da Andrea Bajani, sono le quattro parole in fila che arrivano inaspettate, capaci a un certo punto di ribaltare tutto il libro: «tra non molto albeggerà». Il dolore è raccontato ovunque, la sua trasformazione in letteratura è una rarità.

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