C’è ancora tanto da dire sul mito e il lato oscuro di American Apparel

Com'era lavorare da American Apparel? Complicato, esaltante, degradante. Lo racconta il documentario Trainwreck: The Cult of American Apparel, tra molestie e messianesimo.

07 Luglio 2025

Che le iniziali di American Apparel siano le stesse di Alcolisti Anonimi l’ho notato solo ora, 16 anni dopo il mio primo giorno di lavoro. Sono una Vergine purosangue, anche l’elettricista nella mia rubrica del telefono è salvato come nome e cognome, non esistono cose come “Mauro elettricista”, eppure tutti i miei ex colleghi (e ancora amici) sono salvati come Thomas Aa, Fiammetta Aa, Valentina Aa, Sofia Aa, Francisco Aa. Aa sta per American Apparel, non Alcolisti Anonimi.

Una storia andata parecchio male

Il 1 luglio 2025 è uscito su Netflix Trainwreck: The Cult of American Apparel, un documentario di un’ora sull’ascesa e, soprattutto, la caduta del marchio di abbigliamento casual fondato a Los Angeles dal canadese Dov Charney. Trainwreck è un’antologia di Netflix che si concentra su imprese e storie andate parecchio male, come la Woodstock del 1999, una mini-serie di 3 episodi uscita nel 2022. Ora è arrivata la puntata dedicata ad American Apparel, e se ne sta parlando tanto, in giro per internet e per i social, perché American Apparel ha lasciato un segno profondo, in quei pochi anni che è esistito. Un segno generazionale, ma anche qualcosa di più. Il titolo lo dice bene. Lo dice bene la parola “cult”, che in italiano si traduce come “setta”.

Ho guardato il documentario il giorno dell’uscita, immediatamente, dopo che ci eravamo scritti in molti, noi ex colleghi: il primo era stato Thomas Aa, ma si era fatta sentire anche un’amica francese che lavorava, anche lei, in uno dei molti store di Londra. Un altro ha pubblicato su Instagram una foto di parte dello staff davanti al vecchio punto vendita di San Lorenzo: pantaloni strettissimi, felpe fluorescenti, cappellini con la tesa dritta: tutti vestiti in un modo imbarazzante, oggi. L’eccitazione che ha pervaso me e, sono sicuro, diversi ex dipendenti della catena americana non ha soltanto a che fare con la nostalgia dei nostri vent’anni, degli Strokes e delle energie che ci permettevano di sollevare la serranda ancora in after dalla notte prima. Qualcosa di più magico, in senso positivo, e qualcosa di più maligno, in senso negativo. Sempre magico, ma di quella magia che si lega alle sette: come di una possessione di cui non ti liberi mai del tutto.

Nel documentario appaiono diversi ex dipendenti, uomini e donne. Uno di loro racconta di quando è entrato per la prima volta in un negozio di American Apparel: aveva dato uno sguardo a chi ci lavorava, ai colori, all’identità grafica, aveva assorbito musica (la radio dell’azienda, Viva Radio, aveva ogni settimana nuove playlist curate da dj e cantanti indie anche molto famosi). Aveva realizzato: «I want to be part of this».

American Apparel Club

American Apparel faceva questo effetto: prometteva di essere un club allo stesso tempo esclusivo e aperto a chiunque ne comprendesse la portata rivoluzionaria. Lo faceva con una strategia marketing mai vista prima, verso l’esterno, e con un messaggio semi-settario per chi ne faceva parte o aspirava a farlo. Qualcosa che diceva: questa è una comunità, non soltanto una catena di magliette. Ha una sua estetica, una sua autenticità, un suo messaggio, dei suoi valori.

Se vi ricordate una vecchia campagna di American Apparel – di quelle che apparivano su magazine sottoculturali e controculturali storici come Vice, Pig, Purple, Butt, Girls Like Us, che ogni store vendeva nella sua sezione edicola – noterete che gli ingredienti erano già tutti lì. Un messaggio estetico estremamente sessualizzato dei corpi maschili o femminili, eterosessuali od omosessuali, che si presentava come una sorta di “seconda liberazione sessuale”, promessa di un mondo in cui il sesso sarebbe stsato così normale che lo scandalo, come concetto, non sarebbe dovuto essere nemmeno di casa. Un messaggio etico: Ethically Made – Sweatshop Free – Made in Downtown LA. Un messaggio sia etico che estetico: corpi non conformi agli standard dell’industria della moda o dell’advertising, imperfetti, reali, non ritoccati. Giovanissimi. Troppo, si scoprirà poi.

Dov Charney era ossessionato dal sesso, ma anche dal lavoro. In un senso che oggi definiremmo tossico, per cui qualunque store manager doveva essere rintracciabile a ogni ora del giorno, e le Conference Call mensili prevedere tutti gli store del mondo online alla stessa ora, indipendentemente dalla zona oraria in cui ci si trovavano. Per cui se a Los Angeles erano le 11 del mattino, in Italia erano le 20, ben oltre l’orario di chiusura del negozio e la fine dei turni. Ma anche in un senso con delle implicazioni etiche molto più profonde: Dov (come lo chiamavano, come lo chiamavamo) sosteneva che la sua crociata più importante fosse quella coltro l’ICE e le ferree regole sull’immigrazione negli Stati Uniti. Tra le poche grafiche che Aa non smise mai di produrre e vendere o esporre nei negozi e nelle pubblicità c’era la famosa “Legalize L.A.”, parte di una campagna per chiedere una riforma delle leggi sull’immigrazione che potessero facilitare le pratiche per la cittadinanza. Il ricavato delle vendite di quella linea di magliette veniva donato a gruppi che si battevano per lo stesso obiettivo. American Apparel produceva tutto a Downtown Los Angeles, le sue paghe erano ben sopra il salario minimo, e garantiva assicurazione sanitaria a tutti i dipendenti. All’inizio degli anni Duemila, American Apparel era diventata la più grande azienda di vestiti a produrre tutto senza esternalizzare in Paesi con un costo del lavoro più conveniente, che siano Messico o Bangladesh o Vietnam. Anche questo naturalmente contribuiva a farti, e a farci, sentire parte di qualcosa.

Il delirio di onnipotenza di Dov Charney

Il marketing valoriale, come si sono presto accorti in molti sia dentro l’azienda che fuori, è presto stato travolto dal torrente, sempre più impetuoso, delle accuse di molestie e violenze sessuali nei confronti di dipendenti e collaboratrici. La seconda parte del documentario di Netflix mostra, in forma anonima, le testimonianze di alcune dipendenti dell’epoca, costrette da Charney a spogliarsi, a lavorare nude, a subire o praticare atti sessuali contro la loro volontà. Charney viveva un delirio di onnipotenza del tutto simile a quello di un predicatore di una nuova religione. La sua etica personale sognava un libertarianesimo pansessuale che non teneva conto dei confini personali degli altri. Come tutti gli autoproclamati messia, la sua volontà era l’unico potere che contasse.

In un’intervista al Guardian del 2017, alcuni anni dopo il fallimento dell’azienda, dice: «Andare a letto con gente con cui lavori è INEVITABILE!». Aggiunge, Charney, che non si sarebbe mai sognato di avere una “romantic relationship” con un «factory worker». Il cortocircuito si fa complesso, la questione di classe entra in modo preponderante nella sessualizzazione differente che un corpo “creativo” può subire al contrario di un corpo “proletario”: «Ma con un creativo? Certo!».

Nei giorni dell’uscita di Trainwreck: The Cult of American Apparel sono tornato a parlare di quegli anni all’interno dell’azienda con alcuni amici e amiche che sono anche ex dipendenti e amici e amiche che sono ex clienti affezionati. In qualche modo siamo ancora una comunità, ci cerchiamo reciprocamente, ci riconosciamo. Un’amica mi ha scritto un Whatsapp che diceva: «Non è giusto che un singolo molestatore rovini un’azienda da migliaia di dipendenti», come se fosse un trauma che non si riesce a diluire, nemmeno dieci anni dopo. Credo sia qualcosa di simile a quello che accade con chi esce da una dipendenza e affronta un percorso comune. Chi passa attraverso eventi traumatici o formativi, come le “classi” del reclutamento militare. Chi passa da un’esperienza religiosa estrema e poi ne esce. Una sindrome di Stoccolma del retail.

Nella foto, una pubblicità a Washington D.C. Foto di Mark Ralston/AFP via Getty Images

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