996, il nuovo folle trend lavorativo americano importato dalla Cina

Dalle 9 alle 9, 6 giorni su 7: nel settore tech americano sono sempre più i sostenitori delle 72 ore alla settimana. Uno schema utilizzato in Cina e che ora inizia a comparire anche sugli annunci di Linkedin.

24 Dicembre 2025

Nella Silicon Valley l’ultimo tormentone linguistico è un numero. 996: lavorare dalle 9 alle 9, 6 giorni su 7, per 72 ore totali a settimana. Una sorta di inno Gen Z allo stakanovismo, preso in prestito dalla Cina e recentemente diffusosi nel settore tech nordamericano. Dove prima ha colonizzato i testi delle offerte di lavoro e le relative discussioni su LinkedIn, e ha poi iniziato a fare breccia nella vita reale, attirando anche l’attenzione di testate come New York Times e Guardian. Ne è emerso un feroce scontro generazionale tra due culture del lavoro — e relativi stili di vita — completamente agli antipodi. Da un lato, l’estetica dello sfascio di ventitreenni svaccati su un divano —laptop, energy drink e pigiama— che si godono il brivido — parole loro —di sentirsi “in trincea”, a combattere “in prima linea”. Felicemente in preda a quello stato di confusione psicofisica che solo 12 ore con gli occhi inchiodati allo schermo e un’esistenza allergica a regole e ritmi circadiani possono regalare. Dall’altra, la reazione risentita e comprensibile di chi non riesce a limitarsi a dire “no grazie, non fa per me”. Ma evidenzia l’aspetto immorale, se non addirittura criminale, di questo approccio. Ribadendo quanto il 996 sia retrogrado e disumano; accusando i datori di lavoro che lo richiedono di violare esplicitamente i diritti civili, e mettendo in evidenza i rischi individuali e sistemici di un rapporto con il lavoro totalitario, senza limiti né regole. 

Visto da fuori, sembra un dialogo tra sordi. L’ennesimo vicolo cieco di un discorso pubblico ormai completamente polarizzato. Eppure, a uno sguardo più attento, qualcosa nella discussione sembra inevitabilmente fuori fuoco, difficile da inquadrare razionalmente. Certo, qualche aspetto positivo nel 996 lo può anche trovare. Ad esempio, un minimo di trasparenza, considerando che moltissime professioni, anche al di fuori della Silicon Valley, richiedono un impegno di gran lunga superiore a quello dell’orario ufficiale. Senza dimenticare che la decisione di annientarsi nel lavoro, se individuale e non imposta (non una supposizione scontata, visto il carattere di certi annunci di lavoro), può comunque essere vista come una scelta legittima. Eppure, a livello logico, il concetto rimane  troppo assurdo per essere davvero considerato un modello plausibile. 72 ore di lavoro a settimana — come ci ricorda anche l’ultima incarnazione del meme di Drake — sono infatti solo un vuoto numero, se non si considerano gli obiettivi cui tutta questa dedizione dovrebbe portare. Soprattutto in culture lavorative “goal-oriented” come quelle legate allo sviluppo tecnologico, in cui portare a casa il risultato conta infinitamente più del come ci si sia arrivati. Ma tutto questo non lo scopriamo oggi. Nè possono davvero ignorarlo gli stakanovisti di nuova generazione, che avranno molti difetti, ma probabilmente non quello di essere stupidi. Ma allora perchè lanciarsi in questa campagna? Perchè investire tempo ed energia a difendere una causa che sembra fare acqua da tutte le parti? 

La sensazione è che probabilmente non abbiamo ancora capito bene a cosa ci troviamo di fronte. Ma mentre proviamo a schiarirci le idee, due considerazioni sembrano già delinearsi con chiarezza. La prima è che il 996, più che un’idea, rimane soprattutto una battaglia identitaria. Un modo di rivendicare l’affiliazione alla propria tribù e distinguersi enfaticamente da quelle altrui, proprio come succede con molte discussioni attorno a cibo, politica, sport. Anzi, ci sono momenti in cui l’inno alle 72 ore sembra assumere le sembianze di una vera e propria trollata reazionaria, del resto in linea col carattere del discorso politico contemporaneo. Un po’ come se quell’estetica di pigiami, sfattezza e felice annientamento psico-emotivo fosse più che altro un gigantesco dito medio ai valori che la facevano da padrone negli anni post-pandemia —equilibrio, morigeratezza, flessibilità geografica, cura della salute mentale — e a chi quei valori li aveva promossi con fervore religioso, e a volte, a dirla tutta, un po’ paternalistico. E così, non senza una certa ironia, è proprio la stigmatizzazione viscerale, istintiva che si è scatenata attorno al 996 ciò che certifica meglio di ogni altra cosa il successo del fenomeno. Se infatti lo scopo finale era quello di urlare “ci siamo anche noi”, triggerando il resto del mondo, gli stakanovisti Gen Z sembrano avere portato a termine la propria missione con pieno successo.

La seconda considerazione è che, almeno a livello stilistico, il fenomeno 996 un minimo di innovazione l’ha portata. Al punto che interpretarlo come l’ennesima incarnazione del workoholism sembra essere una mossa un po’ frettolosa, se non proprio sbagliata. C’è infatti una differenza fondamentale tra l’estetica dello stakanovismo con cui siamo cresciuti, quella imperante in buona parte sia degli ambienti corporate che di quelli intellettuali, e quella del 996. Nel primo caso, la celebrazione della fatica, e dunque di chi eroicamente se la sobbarca, rimane sotto traccia. Qualcosa che si cela volutamente sommerso — ma ovviamente ben visibile! — sotto la carrellata di occhiaie, musi lunghi, lamenti e risentimenti che a lungo abbiamo associato al profilo del professionista di successo. Per cogliere lo spirito del fenomeno, era pure spuntato un termine specifico: quello di busy-bragging, la pratica di chi fa emergere la celebrazione della fatica come un effetto secondario, fintamente collaterale, dello stress. Sulla falsa riga del più famoso fenomeno dell’humblebragging, l’atto di nascondere il vanto sotto apparenti manifestazioni di modestia (ne avevamo parlato qui). 

Nel caso del 996, invece, la struttura del messaggio si è completamente ribaltata. La celebrazione della fatica viene sbandierata in maniera non solo esplicita, ma pure entusiasta. Con una carica superomistica che fa impallidire anche i vaneggi più estremi a cui i personaggi della Silicon Valley ci aveva abituato. All’apice del proprio successo, Mark Zuckerberg o Elizabeth Holmes li ricordiamo come dei mitomani ossessionati dal pensiero di rivoluzionare l’umanità. Un po’ in debito di sonno, forse. Ma mai particolarmente interessati a tenere il conto delle ore passate alla scrivania — e neppure a farcelo sapere. Anche perchè questo li avrebbe fatti sembrare noiosi, pedestri, impiegatizi; tutto quello da cui la cultura di quella Silicon Valley intendeva distanziarsi. Con il 996, invece, il culto dell’orario sembra essere diventato la trave portante del messaggio, dando vita a una nuova filosofia in cui il processo sembra contare più del risultato. Come se la vera ricompensa non fosse la prospettiva della scoperta rivoluzionaria all’orizzonte, autentica o fraudolenta che sia. Ma il fatto stesso di essere lì, sfatti e felici.  

Ed è proprio questo spirito euforico, sprizzante di entusiasmo, che rende così difficile scalfire il culto del 996. Del resto, è difficile fare la lezione sull’esaurimento nervoso a chi proprio nel totale annientamento sul lavoro sembra aver trovato il proprio nirvana. Al punto che, in vista di un’ipotetica battaglia sindacale volta a evitare che il 996 diventi uno strumento di ricatto in mano ai datori di lavoro, l’ostacolo più insidioso potrebbe proprio essere l’entusiasmo sfrenato, totalmente acritico, delle presunte vittime. Che sembrano avere abbracciato senza riserve il pensiero di Jack Ma, il leggendario e controverso miliardario fondatore di Alibaba, la controparte cinese di Amazon ed eBay, secondo cui, come dichiarato nel 2018, “Il 996 è una benedizione, e gli impiegati dovrebbero essere grati della possibilità di lavorare fino allo sfinimento”. Sette anni dopo, il 996 è sbarcato dall’altra parte del mondo. E, comunque la si pensi, sembra destinato a tenerci compagnia per un bel pezzo.

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