Il suo Familia ha sorpreso per l’eleganza e la profondità con cui tratta la violenza di genere, diventando il rappresentante italiano all'Oscar per il Miglior film internazionale. Lo abbiamo scelto come uno dei volti del Nuovo cinema italiano, tema del numero di Rivista Studio che arriva oggi in edicola.
Questo articolo è tratto dal numero di Rivista Studio uscito oggi e dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Credo che la tendenza a certi comportamenti abitudinari sia un tratto della mia famiglia che si trasmette per via paterna. Mio nonno, per trent’anni, ha cenato sempre allo stesso tavolo dello stesso ristorante, proprio accanto all’ingresso. Mio padre aveva il suo posto al bar di fronte all’ufficio, in fondo a una piccola sala stretta e lunga. Da parte mia, invece, quando vado al cinema sotto casa cerco di sedermi sempre sulla stessa poltroncina, e quando la trovo occupata mi indispettisco così tanto che quasi vorrei andarmene. La riconosco perché si trova al centro di quella che, per me, è la fila migliore della sala, e ha un brutto segno quasi gommoso sullo schienale, che non so come si sia potuto formare. L’ho eletta a mia seduta preferita perché, quando ho notato quella misteriosa patacca per la prima volta, ho immaginato che nessuno volesse sedercisi, e mi ha fatto tenerezza.
Il Beltrade, a Milano
La coda che si forma quotidianamente davanti al Beltrade – che è, appunto, il mio cinema di quartiere – potrebbe stupire chi vi si trova di fronte per la prima volta, tanto più che è composta prevalentemente da under 40. In un momento storico in cui molti cinema chiudono per lasciare posto a nuovi grandi magazzini, o si dimezzano per ospitare al loro interno dei supermercati a prezzi competitivi, il successo di un monosala multiprogrammazione di circa duecento posti lontano dal centro può apparire come un’anomalia, un glitch di sistema che disturba l’offerta sterminata – e caotica – delle piattaforme di streaming.
Il Beltrade, attiguo alla chiesa di Santa Maria Beltrade, si trova nel cuore di quel quartiere popolare che da alcuni anni è stato ribattezzato NoLo. Esiste dagli anni Trenta del Novecento e per gran parte della sua storia è stato il cinema della parrocchia. All’inizio degli anni Dieci i film, di seconda e terza visione, venivano proiettati solo il sabato e la domenica, il pubblico scarseggiava e al cinema mancava un’identità chiara, una visione di che cosa sarebbe potuto diventare.
Poi, nel 2012 e grazie a un bando Cariplo, la svolta. La gestione della sala viene affidata alla SNC Barz and Hippo, che da anni realizzava rassegne cinematografiche e si occupava della programmazione di alcuni cinema dell’hinterland milanese. «All’inizio abbiamo cercato di mantenere una certa continuità con quello che si faceva prima», mi racconta Monica Naldi di Barz and Hippo, «era un cinema molto radicato nel quartiere e ci dispiaceva stravolgerlo, ma si trattava di film che erano già passati dappertutto. Abbiamo allora cominciato a lavorare con i distributori indipendenti, che a differenza di quelli più grossi ci garantivano film in prima visione che non si trovavano da nessun’altra parte, a proporre più pellicole a rotazione nello stesso giorno e tutti, solo, in lingua originale, e ha funzionato. Abbiamo scoperto che esisteva un pubblico che era simile a noi, a cui piacevano queste cose, sia nel quartiere che nel resto della città».
Nel corso di questi tredici anni di gestione il Beltrade ha allargato gli orari di proiezione (il primo spettacolo adesso comincia alle 11 del mattino, sette giorni su sette), ha visto moltiplicare il numero degli ingressi ma non ha mai smarrito la sua cifra stilistica. Ogni mese vengono proposte rassegne, retrospettive e incontri con i registi, e anche se, a poco a poco, i film dei distributori più grossi si sono ritagliati uno spazio all’interno della sala vagamente brutalista e foderata di tessuto rosso, la programmazione ha sempre mantenuto la coerenza degli inizi e ha continuato a rispecchiare i gusti, gli interessi, i valori di chi la sala la gestisce – e di chi la frequenta.
Il Beltrade è totalmente privo di quell’aura snob che spesso caratterizza i cinema d’essai: l’atmosfera è calorosa, da bottega di famiglia dove si bada più alla sostanza che alla forma, anche se l’identità grafica dal sapore giocoso e un po’ retrò, regalo dello studio grafico La Tigre, rende l’ambiente riconoscibilissimo e anche piuttosto cool. Si vuole usare il cinema per parlare anche di altro, mi spiega Naldi, per osservare cosa succede nel mondo – da qui la grande attenzione ai documentari – ma allo stesso tempo per non perdere il dialogo con il territorio: «Abbiamo ospitato volentieri dei film che parlano del problema della gentrificazione, e anche alcuni incontri con l’Associazione Abitare in via Padova, dove cercavamo di portare l’attenzione sull’emergenza abitativa attualmente in corso».
Il Troisi, a Roma
Un radicamento sul territorio speculare a quello che, a Roma, caratterizza il cinema Troisi, il cui bar offre agli spettatori – ma anche ai semplici clienti che desiderano fare un aperitivo – i prodotti dei negozi più antichi di Trastevere, in uno scambio sinergico e virtuoso con il quartiere che, mi dice Valerio Carocci, presidente della Fondazione Piccolo America: «È una scelta politica in chiave anti-gentrificazione». Il Troisi ha aperto nel 2021 grazie a un bando cittadino e, oltre al bar e a una sala da 300 posti, ospita un’aula studio aperta tutti i giorni e a tutte le ore, accessibile gratuitamente.
Anche qui i film vengono dati solo in lingua originale, e le pellicole italiane vengono sottotitolate in inglese: «Vogliamo dare ai turisti, o agli studenti fuori sede che vengono a Roma, un’offerta culturale legata al mondo del cinema e in particolare del cinema italiano, e non solo ai monumenti o ai musei», mi dice Carocci. La vocazione politica e sociale del Troisi è spiccata, ed emerge da tutto ciò che avviene all’interno dei loro spazi: il personale è formato per offrire un primo soccorso alle donne vittime di violenza per strada, e la programmazione vuole essere il più possibile inclusiva, aperta anche a quelle fasce di popolazione che difficilmente riescono a frequentare i cinema, come i genitori dei neonati, che con il Cine Mini del martedì mattina possono portare i loro bebè in sala, con luci soffuse e audio ridotto.
L’offerta culturale del Troisi non si limita al cinema ma si allarga fino a diventare un vero e proprio spazio multidisciplinare. Oltre alle retrospettive e alle rassegne curate dai grandi registi (Paolo Sorrentino, per esempio, nel 2024 ha selezionato e presentato tre film statunitensi «dove gli esseri umani possono rimediare ai loro errori») si ospitano eventi che vanno ben oltre la chiacchierata con il regista. «Ci piace organizzare incontri anche con gli autori, il cast, la troupe, per diversificare un po’ e non mettere sempre al centro il regista», mi spiega Carocci, «spesso invece affianchiamo alla proiezione un dibattito che giri intorno al tema del film. Ad esempio, per Bones and All di Guadagnino abbiamo invitato a parlare un antropologo esperto di cannibalismo, per Everything Everywhere All at Once un docente di fisica che ci ha spiegato il multiverso».
Sembra che la tendenza più naturale del Troisi sia proprio quella di allargarsi, di tenere insieme attività diversissime fra loro attraverso una matrice che intende il cinema, prima di tutto, come un luogo di scambi e incontri. D’altronde, il Troisi è legato a doppio filo – attraverso la Fondazione Piccolo America – all’esperienza del Cinema in Piazza che, giunto ormai alla sua undicesima edizione, ha portato il cinema fuori dai cinema, nelle piazze di Roma, in forma gratuita e accessibile a tutti.
Il Cinemino, di nuovo a Milano
Anche a Milano c’è un cinema che ha deciso di aprirsi agli spazi urbani attraverso l’organizzazione di un festival. Si tratta del Cinemino, un piccolo monosala multiprogrammazione in zona Porta Romana che a maggio di quest’anno ha contribuito alla creazione della prima edizione del Milano Film Fest, un festival di cinema internazionale con due categorie concorsuali (cortometraggi e lungometraggi) nato dalla ventennale esperienza del Milano Film Festival. «Si tenevano incontri e seminari gratuiti dalla mattina alla sera all’interno del Castello Sforzesco», mi spiega Icaro Campaniello, «il centro di tutto era il Piccolo Teatro e poi c’erano diciotto arene all’aperto, gratuite. In sei giorni abbiamo proiettato più di 110 film».
Il Cinemino è nato nel 2018 per iniziativa di un gruppo di nove amici, tutti legati in vario modo al mondo del cinema, che volevano creare uno spazio dove promuovere la cultura cinematografica senza seguire troppo da vicino le regole del mercato. Anche qui c’è un bar che vive di vita propria e che offre uno spazio alle discussioni post-proiezione, e grande attenzione viene riservata alle masterclass che ogni mese si dedicano a un regista diverso, curate dal critico e docente Andrea Chimento. Il lunedì sera è dedicato ai classici, «A quei film di cui hai sempre sentito parlare ma non hai mai visto», mi spiega Campaniello, «ed è molto bello perché vengono anche moltissimi giovani, e questo significa che se il cinema è di qualità – e i classici tendenzialmente sono di qualità – i giovani lo riconoscono, e tornano settimana dopo settimana, e vengono a vedere il film anche se non sanno bene di cosa si tratti, ma sanno che fa parte di un percorso che stiamo costruendo per il nostro pubblico e si fidano di noi».
“Sei pronto/a per un grande amore?”, è la frase che viene proiettata sul sipario del Beltrade un attimo prima che questo si apra e la pellicola cominci a girare. La risposta, in cinema come questi –veri e propri avamposti di resistenza culturale, di vivacità e inventiva – è sempre, e quasi certamente, di sì.

Non è più un semplice gesto culturale: il recente caso Radiohead mostra come il live sia diventato oggetto di culto, tra mercificazione dell’accesso, partecipazione trasformata in status, crisi di panico e di pianto.