La polizia è entrata il 21 agosto alle 7:30 per sgomberare lo spazio autogestito, dopo più di 30 anni di contenziosi e 133 rinvii.
La fila all’ingresso per pagare il biglietto sempre popolare. Un timbro sul polso verso l’enorme stanzone, il bar. Chiacchiere e bottiglie. Il grande palco. L’acustica era pessima, ma al Leoncavallo ci vedevi suonare: Fugazi, Sick of It All, persino i Public Enemy. Perché quello era più di un posto: era un rito di passaggio. Per chi non era di Milano, un mito. Uscivi che era notte con la sensazione precisa di aver attraversato un pezzo di città che non somigliava a nient’altro. Il mio incontro con il Leoncavallo è avvenuto tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000. Quando Milano era una città completamente diversa.
Ha origini lontane il Leoncavallo, a raccontarle è Primo Moroni in un’intervista che è molto utile rileggere oggi, a qualche giorno dallo sgombero del centro sociale più grande d’Italia. Libraio e attivista politico sociale, fondatore della libreria Calusca – che dal 1972 ancora oggi gli sopravvive, tra le mura del Cox 18 – ha saputo costruire attorno al suo spazio una rara riflessione trasversale su lotte sociali e riferimenti storici di quel grande arcipelago composto da movimenti, gruppi anarchici e comunisti di sinistra, operaisti, autonomi, situazionisti. Dal femminismo radicale ai movimenti di liberazione sessuale.
Vecchia storia
Moroni racconta come tra il 1968 e il 1972 si fosse aperta anche in Italia la stagione delle contestazioni studentesche. Dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 nasce a Milano un’inedita alleanza tra movimenti e forze democratiche, animata dal Bollettino di Controinformazione Democratica, che coinvolgeva magistrati, giornalisti e intellettuali per fare luce sulle trame oscure dello Stato. Nel 1972 la morte di Giangiacomo Feltrinelli a segnare l’inizio di una serie di fratture e la nascita delle sigle della sinistra extraparlamentare, come Lotta Continua e Potere Operaio.
A seguire, l’occupazione della FIAT nel 1973 e un picco di mobilitazione. È nel 1975 che nasce il Leoncavallo, in un anno di frontiera: mentre nelle fabbriche si inaspriva lo scontro e cresceva una nuova generazione di giovani dei quartieri periferici costruiti tra fine anni ’50 e inizio ’60 – dal Gallaratese a Baggio, dal Gratosoglio a Cologno Monzese e Cinisello Balsamo. Dalle compagnie di scuola e di strada nascevano i primi Circoli Autogestiti del Proletariato Giovanile, luoghi di controcultura e autorappresentazione politica. Il Leoncavallo prende vita così, dall’occupazione di una fabbrica farmaceutica dismessa di 3.600 mq, una delle più grandi di Milano. A partecipare: Comitati di Caseggiato, collettivi antifascisti, Lotta Continua, Avanguardia Operaia e molti altri. L’obiettivo: creare spazi ponte tra organizzazioni politiche e società civile, superando la centralità esclusiva della fabbrica. Nel 1978 l’omicidio di Fausto e Iaio a sconvolgere Milano: ai funerali 100 mila persone. E’ da quella tragedia che prende vita il gruppo delle Mamme del Leoncavallo. Infine l’omicidio Moro a segnare un altro spartiacque.
Dopo un periodo di frammentazione, nel 1985 il Leoncavallo cambia pelle accogliendo i punk del Virus di via Correggio è così che nasce l’Helter Skelter, raccontato da Marco Philopat nel suo Costretti a sanguinare. Moroni racconta che “per alcuni militanti quelle culture erano espressioni piccolo-borghesi, ma il Centro si trasforma comunque in riferimento di una scena culturale autoprodotta di rilievo internazionale”. È intorno al 2005 che molti spazi storici di Milano vengono sgomberati e chiusi: Bulk, Garibaldi, Pergola e anche il Cox 18 – poi riattivato. Questa operazione continuativa, all’inizio di una grande fase di trasformazione urbana di Milano, ha indebolito sia la presenza di quegli spazi che i gruppi di militanza sociale e politica, già psicologicamente massacrati dai fatti del G8 di Genova avvenuti nel 2001.
Erano quelli gli anni in cui Milano, con Albertini sindaco, metteva le basi di quello che sarebbe diventata la città oggi. Tra l’avvio di grandi cantieri, il coinvolgimento delle archistar a progettare nuovi grattacieli, anche sulle macerie di quegli stessi spazi sociali. Trasformazione continuata da Letizia Moratti, sindaca fino al 2011, regista politica di una Expo inaugurata dal suo successore Giuliano Pisapia, tra i tafferugli dei Black Block nel 2015. Una Expo che ha avviato il Modello Milano, della “città vincente”, governata ancora oggi da Beppe Sala. Una città che – nonostante Covid, conflitti internazionali, inflazione – è stata sempre più costretta a correre a due velocità. Quella di chi deve arrivare a fine mese e quella del profitto.
Milano oggi
La Milano che si è risignificata in questi anni è oggi internazionale, turistica, densa di eventi. Una Milano-miraggio che, migliorata in molti aspetti, resta attrattiva e strategica per l’economia nazionale. Moda, design, comunicazione, finanza continuano a generare lavoro. Ma la Milano dei capitali e dei grattacieli è anche quella delle diseguaglianze. Del caro casa, che respinge i lavoratori che la tengono viva ma non possono permettersela. La Milano delle periferie, abitate da famiglie straniere e dai loro figli italiani, che spesso non possono accedere alle stesse opportunità. Proprio lì, però, la classe media, sostenuta dai risparmi dei genitori, oggi compra casa a prezzi sempre più alti, colonizzando le periferie e alzandone il valore.
Negli ultimi 10 anni si è avviata anche una nuova era di spazi culturali tra cui Mosso in Via Padova, Mare culturale urbano a San Siro, Nuovo Armenia a Dergano. Luoghi che hanno una forte missione sociale. Alcune di queste realtà, però, per ristrutturare gli spazi, sono state costrette ad esporsi economicamente, partecipando a bandi che richiedono co-finanziamenti, rendicontazioni, linee guida alle quali imperativamente sottostare. Così, per cercare di rientrare dei costi, quegli spazi diventano anche ristoranti, pizzerie, birrerie. I cui prezzi però, sono meno popolari e accessibili, in una Milano sempre più costosa. Il rischio è quello di escludere chi ha di meno. Che preferisce, a quel punto, usare le piazze della città, dove con la birra acquistata dal “bangladino” si può far serata, magari facendo infuriare chi, sopra a quella piazza, ci abita.
È in questa Milano, fresca di un’inchiesta giudiziaria in ambito urbanistico, che dopo 133 rinvii il governo, rivendicando una prova di forza in nome della legalità, ha sgomberato il Leoncavallo, senza nemmeno avvisare il Sindaco. Proprio mentre, dopo anni di giunte di diverso colore politico, si era finalmente vicini a un accordo mai raggiunto prima – atteso per decenni – che avrebbe portato ad uno sgombero concordato il 9 settembre. Il Comune aveva proposto alle Mamme del Leoncavallo uno spazio in via San Dionigi, la cui riqualificazione, una volta ottenuto lo spazio tramite bando, avrebbe richiesto però almeno 3 milioni di euro. Lo sgombero del Leonka è stato uno shock per la città: rabbia, nostalgia, indignazione. “Milano non può permettersi di perdere uno spazio così”.
E anche se il Centro aveva smarrito da tempo parte della sua spinta come luogo di avanguardia, in una città sempre più adattata a logiche capitalistiche, fino all’ultimo è rimasto uno dei pochissimi spazi popolari culturalmente accessibili a chi Milano non se la può più permettere.
Leoncavallo futuro
Ma per fare in modo che l’indignazione non rimanga fine a sé stessa, a coltivar solo inutili rancori, dobbiamo accettare che questa non è più l’epoca descritta e animata da figure come quella di Primo Moroni. È un’altra città, un’altra società, con altri desideri e altri dolori. Dove continuare a replicare le stesse battaglie, con le stesse parole, rischia di impedirci di vedere quali siano le lotte necessarie oggi. Il Leoncavallo lascia a Milano un’eredità enorme: la prova che uno spazio può diventare simbolo, linguaggio, comunità, cultura. Ma quella stagione non si può più semplicemente replicare. Da lì dobbiamo ripartire, non fermarci. Servono nuovi strumenti, nuove parole. Servono luoghi davvero accessibili, capaci di costruire comunità senza esclusioni. Servono spazi politici che nascano dal presente e non dalla nostalgia, e politiche culturali che non producano solo eventi ma che generino progetti di senso, dove le periferie, anche nelle loro pieghe, possano essere coinvolte, non solo come location. Servono spazi di sano conflitto dove poter mettere in discussione le modalità di finanziamento attuali del fare cultura.
Non possiamo limitarci a difendere quello che è stato: dobbiamo creare quello che ancora non c’è. Il Leoncavallo di ieri ci serve per capire di cosa abbiamo bisogno oggi. Per costruire una nuova controcultura, serve trovare una forza nuova, inclusiva, contemporanea, capace di parlare a questa città com’è ora, non a quella di trent’anni fa. Non ci serve un museo della protesta: ci serve una nuova lotta viva, libera, radicale, che guardi avanti e non indietro. Una lotta che torni a presidiare le strade, le piazze, i vuoti, con una coscienza di futuro, non solo di memoria. Chissà se saremo capaci di farlo.