40 anni di Live Aid, il concerto che voleva cambiare il mondo

Il 13 luglio del 1985 due miliardi di persone seguirono il più grande evento musicale della storia: oggi che un musical ripercorre la sua avventurosa organizzazione ci rendiamo conto di quanto sarebbe impossibile ripeterlo.

13 Luglio 2025

Se per caso siete, o sarete, di passaggio a Londra, fate un salto in uno dei molti botteghini per i biglietti dei musical del West End. Niente Mamma Mia! o Cabaret, lo show su cui puntare si chiama Just for One Day, e non è la storia di David Bowie, come il titolo potrebbe tradire, ma il racconto di un momento storico che per circa nove mesi ha unito gran parte del pianeta nel tentativo di renderlo migliore. Il culmine di questo movimento si ebbe il 13 luglio del 1985, esattamente quarant’anni fa, quando quasi due miliardi di persone si inchiodarono di fronte a un televisore per vedere quello che, forse, è ancora oggi il più grande evento musicale della storia. Erano le 12:00 ora di Greenwich quando ebbe inizio il Live Aid al Wembley Stadium di Londra, le 13:51 quando iniziarono le performance al J.F.K. Stadium di Philadelphia. Eravamo giovani, chi c’era ovviamente, ed eravamo sicuri di cambiare il mondo. Per la cronaca: non è andata così.

Solo per un giorno

Just for One Day è andato in cartellone il 25 maggio allo Shaftesbury Theatre e ci resterà almeno fino a gennaio, ma visto il successo non è escluso che possa essere prolungato. Si tratta in realtà di un ritorno in scena per lo show, il debutto era stato all’Old Vic nella scorsa stagione. Ero andato a vederlo immediatamente, per mestiere e per scoprire cosa fosse rimasto della mia adolescenza. Risposta: era ancora tutto lì, bastava scavare un po’. 

Il musical racconta, con dovizia di particolari, il percorso che fece Bob Geldof da semplice frontman dei Boomtown Rats a uno dei più famosi attivisti politici e umanitari del secolo. I Rats erano una band irlandese che aveva fatto fortuna con un singolo erroneamente diventato un meme nei tempi moderni. “I Don’t Like Mondays”, questo il titolo, è infatti ispirato alla sparatoria della Cleveland Elementary School, perpetrata dalla sedicenne Brenda Ann Spencer, che alla domanda sul perché avesse commesso il folle gesto, che costò la vita a due persone, rispose banalmente “I don’t like Mondays”.

Era invece un martedì il 23 ottobre 1984. Geldof, non ancora Sir, era a casa a guardare la tv. Sulla Bbc andò in onda uno dei reportage che il giornalista Michael Burke stava realizzando da mesi sulla carestia in Etiopia. Immagini potentissime, devastanti, che scossero nel profondo la rockstar. Il resto, come si suole dire, è storia. Una telefonata all’amico Midge Ure, leader degli Ultravox, una canzone, “Do They Know It’s Christmas?”, che diventa il singolo più venduto della storia, superato poi da “We Are The World”, la sponda benefica statunitense, organizzata da Harry Belafonte e Quincy Jones. E poi l’avventurosa organizzazione del concerto, compreso il colloquio tra Geldof e l’allora Primo Ministro Margaret Thatcher per la detassazione dei fondi devoluti in beneficenza (momento gustosissimo anche nello spettacolo).

Ci sono tanti buoni sentimenti in Just For One Day, un po’ di politica del buon senso per sensibilizzare le nuove generazioni, che vengono giustamente portate a vederlo sotto forma di scolaresca uscendone estasiate, molta nostalgia e tantissima musica. Quella degli onnipresenti anni Ottanta, le canzoni che passarono in quelle sedici ore di concerto, e naturalmente quella che dà il titolo allo spettacolo, quella “Heroes” che David Bowie cantò come ultimo pezzo della sua performance, intorno alle 19:40, e che probabilmente fu cantata contemporaneamente da due miliardi di persone. Ce ne furono molti di momenti del genere: Bono degli U2 che salva una ragazza schiacciata sulle transenne del Wembley Stadium e che balla con lei sulle note di una infinita versione medley di “Bad”. La schiena nuda di Sade, che ha fatto innamorare mezzo mondo. Elton John e George Michael che cantano insieme “Don’t Let the Sun Go Down on Me”, da brividi. E naturalmente i Queen, i 21 minuti più belli della storia del rock.

Il concerto fu concepito come il più grande Telethon della storia, il numero di telefono per le donazioni veniva mandato in sovraimpressione ripetutamente e lanciato dai due palchi a cadenza regolare. Alla fine della fiera, in un giorno furono raccolti 50 milioni di sterline, diventati poi circa il triplo con le donazioni arrivate nelle settimane successive. Naturalmente attorno al come vennero utilizzati si scatenarono polemiche, Geldof fu al centro di molte controversie, mentre anche la sua vita privata stava andando a rotoli. È stato visto come un messia e come un truffatore, ma da bravo irlandese ha sempre preso tutto con filosofia. È diventato baronetto, onorario non essendo suddito di Sua Maestà, avrebbe meritato un Nobel per la Pace.

Un sequel non all’altezza

Vent’anni dopo ci riprovò, organizzò il Live 8, era l’estate del 2005, doveva essere una celebrazione e un gesto politico, pochi giorni prima del G8 di Gleaneagles. Otto concerti gratuiti in contemporanea, tutto molto bello, ma Laura Pausini non è paragonabile agli Who, ammettiamolo. Ebbe il merito di farci vedere per l’ultima volta insieme i Pink Floyd, con Gilmour e Waters che volevano evidentemente saltarsi al collo a ogni secondo della loro convivenza sul palco. Fu un bel momento di distensione e di pace. Nonostante lo sforzo, non fu la stessa cosa. Il mondo era già cambiato, anche semplicemente organizzare la diretta dell’evento sembrava una cosa banale rispetto al coordinamento satellitare di due decadi prima. È l’impossibile a raccontare la leggenda, non il fattibile.

E oggi? Niente. In un momento in cui servirebbe un Gaza Aid, ci si rende conto che quell’afflato non c’è più. Un evento del genere, che potrebbe essere visto da otto miliardi di persone grazie ai social network, alla diretta televisiva e internet, che potrebbe sensibilizzare su tutte le tragedie che stiamo vivendo, non viene neanche lontanamente preso in considerazione. Eppure, sarebbe perfetto, l’anniversario tondo in un momento in cui il mondo sta bruciando. Purtroppo, ed è una certezza, non funzionerebbe. Ondate di odio online, gli artisti costretti a rinunciare dal loro management per non essere additati dal regime trumpiano verrebbero criticati con violenza mettendo a repentaglio le loro macchine da soldi, come d’altronde succederebbe anche a quelli che con coraggio salirebbero sul palco. Per chi o cosa, d’altronde? Per la pace nel mondo o per migliaia di smartphone in alto nei cieli, felici di essere lì a intasare server con miliardi di giga di video con un tempo medio di visione di un secondo e mezzo?

Meglio aggrapparsi ai ricordi, per quanto boomer possa sembrare. Il Live Aid è stato un evento unico, come lo fu Woodstock nel ’69. Chi c’era, allo stadio o nella sua cameretta, ha il diritto e il dovere di parlarne e di condividere quei momenti che, non è retorica, hanno formato una generazione. Chi aveva, come me e molti altri, quattordici anni quel 13 luglio, il giorno dopo era cambiato. Eravamo davvero convinti di poter costruire un mondo migliore, di potere sconfiggere la fame e la povertà. Dopo il Live Aid, quattro anni e abbiamo visto abbattere il Muro di Berlino. Brindammo insieme ai tedeschi, non più dell’Est, quel 9 novembre, dopo avere pianto per i ragazzi di Piazza Tienanmen pochi mesi prima. Abbiamo visto il crollo dell’Unione Sovietica. Abbiamo creduto davvero a chi quel giorno ci diceva che siamo i campioni del mondo. E questo non ce lo potrà mai levare nessuno.

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