A Giorgio Poi piace fare tutto da solo

Cantautore, polistrumentista, produttore, compositore di colonne sonore e molto altro. L’abbiamo intercettato, rilassatissimo, pochi giorni prima della partenza per il tour italiano ed europeo di Schegge, il suo nuovo disco, che lo terrà occupato tutta l’estate.

10 Luglio 2025

Questa intervista è tratta dal nuovo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online

Schegge esce a quattro anni da Gommapiuma. La pausa fra i tuoi tre dischi precedenti era sempre stata di due anni, perché questa volta sei andato lungo?
Ci sono state questioni che mi hanno portato a non scrivere per un periodo. Ho cambiato città, ci sono stati scombussolamenti in famiglia, problemi sentimentali. Non avevo il tempo, il luogo o l’energia per scrivere. Però tutti questi sconvolgimenti mi hanno rimesso in contatto con la musica. Negli anni precedenti tendevo più a leggere, guardare i film, seguire storie che mi portassero fuori da me. La musica invece rimane dentro, in un certo senso ci riguarda sempre, parla di noi. Quando sono tornato a vivere a Roma ho un po’ ritrovato questo rapporto con l’ascolto della musica, l’ho sentita in un modo molto profondo perché avevo voglia di ascoltarmi. Quando poi mi sono rimesso a scrivere era come se le mie antenne fossero in alto, ero ricettivo, trovavo sempre una strada da seguire. Poi magari non era quella giusta, la cambiavo, però ero curioso, aperto.

Secondo me Schegge è il tuo disco più romantico e personale nei testi, e il più sofisticato musicalmente. Lo vedi come una continuazione del tuo percorso artistico o l’inizio di una nuova fase?
Senza i dischi precedenti non ci sarebbe stato questo. Via via imparo cose nuove, sono affascinato da suoni diversi, armonie diverse. In Schegge c’è un discorso anche armonicamente un po’ più avventuroso rispetto a quello che c’era stato nell’ultimo e nel penultimo disco. È stato molto naturale, è quello che ho voglia di ascoltare e quindi sono i fili che spontaneamente mi viene di tirare.

Hai suonato tutti gli strumenti?
Sì. Ho uno studio in casa.

Come mai?
Fare da solo mi consente di dedicare tempo a ogni dettaglio. Se coinvolgo qualcuno e gli faccio registrare una parte di batteria poi magari non mi piace, cambio idea o la struttura del pezzo, ci sto giorni a trovare la batteria esattamente come la voglio, non è che il batterista può stare sempre a casa mia, anche perché diventerei insopportabile. A un certo punto giochi con la pazienza delle persone, e siccome detesto i conflitti, soprattutto quando si parla di lavoro voglio un’atmosfera rilassata, stare tranquillo, non voglio bisticciare per una nota o un bridge, preferisco prendere io queste decisioni e potermene poi pentire e cambiare tutto.

Quando finisci un disco ti senti svuotato, non scrivi per un po’?
No, a me andrebbe, è che non ho tempo in questo periodo fra le prove per i live, le interviste… È bella questa alternanza fra lo stare chiuso in casa a comporre e poi dopo fare tutt’altro, accantonare un attimo quel discorso e far uscire il disco, portarlo in giro, suonare. Non è una cosa che si sceglie più di tanto, succede. Anche volendo adesso non avrei il tempo o la concentrazione, non sono mai a casa e quando torno ho duecento cose da fare.

Sei contento di tornare in tour?
Sì. Non mi piacciono gli spostamenti, il soundcheck, dormire in giro, mangiare male, quello è l’aspetto meno interessante per me della vita da tour. Però il fatto di suonare sempre in un posto diverso, beh, mi piace molto. Questo è il quarto disco perciò ci sono molte canzoni fra cui scegliere per la scaletta, si può fare una bella selezione di quelle che funzionano meglio.

Nella tua carriera hai suonato in posti stranissimi, tournée asiatiche, Città del Messico, gli Stati Uniti. Qual è la situazione più assurda in cui ti sei trovato a esibirti?
Devo dire che il mio giro in Cina era già più strutturato rispetto ai posti in cui suonavo con la mia band di dieci anni fa, i Vadoinmessico. Con loro è capitato tante volte di suonare all’estero davanti a due persone. In Cina sono stato con l’Istituto di cultura, c’era una collaborazione con l’università perciò mi hanno invitato, hanno fatto un lavoro sui testi, li hanno tradotti per gli studenti di lingue.

E la risposta del pubblico cinese com’è stata? Ballavano?
Devo dire ottima. Non hanno ballato però sono molto attenti, non si perdevano un respiro.

Telecamere dei telefoni accese?
Eh sì, quelle c’erano. Però davvero un pubblico attento, silenzioso, in ascolto, molto ricettivo. Sorprendente. Sicuramente quella è stata una situazione strana.

Hai fatto una lunga gavetta, più di dieci anni e centinaia di concerti. Cosa ne pensi dell’industria musicale di oggi, milioni di visualizzazioni per la prima canzone di un 18enne?
Credo che in un certo senso sia sempre successo. I grandi exploit improvvisi, anche dei giovanissimi, non sono una novità. Non so quanto possa essere una fortuna, perché nel momento che succede una cosa di quel tipo forse si ha la percezione di essere già arrivati al traguardo che ci si era prefissati. Può essere pericoloso.

Andresti a Sanremo?
Andrei in qualunque posto in cui posso cantare quello che voglio cantare io, quindi se c’è un luogo che dà anche una grande esposizione ma in cui posso cantare la mia canzone come mi pare allora ci andrei, certo, perché no. Si parla di contenitori di musica, quindi se il contenitore è pronto a ricevermi io sono pronto a andarci.

Hai vissuto a Berlino, Londra, Bologna e ora sei tornato a Roma, dove sei cresciuto. Come l’hai trovata?
Faccio un po’ fatica a fare delle valutazioni complessive su una città, e questo vale per tutte quelle in cui ho vissuto perché poi la mia vita alla fine è molto… non voglio dire domestica, però frequento i soliti posti, vedo gli amici, non partecipo più di tanto alla vita pubblica. Ho un rapporto intimo con le strade, vado molto in giro, passo le giornate a camminare, poi torno a casa e scrivo fino a notte fonda. Comunque Roma l’ho trovata migliorata, ho visto finalmente tagliare degli alberi, non succedeva da anni, si aspettava che precipitassero addosso alle macchine e alle persone. Adesso mi sembra che ci sia un pochino più di cura.

Quando hai iniziato a suonare?
Alle medie si suonava il flauto, come tutti. Non stavo molto simpatico alla mia professoressa perché non volevo leggere la musica, non mi veniva, ascoltavo gli altri e suonavo a orecchio, li seguivo. Ma la prof diceva che era come copiare, quindi a un certo punto non ho più suonato, me l’ha impedito, durante l’ora di musica stavo fermo.

Che stronza. Non volevi proprio imparare a leggere il pentagramma?
Non ne vedevo la necessità, riuscivo a suonare lo stesso. In terza media questa professoressa è andata via e ne è venuta un’altra che mi ha detto, giustamente, “perché non suoni? Devi suonare anche tu”. A quel punto odiavo il flauto. Mio fratello suonava un pochino la chitarra, conosceva il giro di do, ascoltava i Nirvana, così ho detto alla professoressa “io suono la chitarra”, perché a quell’età se una cosa la sa fare tuo fratello la sai fare anche tu. Ho imparato il giro di do, e in classe accompagnavo con la chitarra. Da lì non ho mai smesso, è diventata il mio nuovo gioco. C’è quella delusione da bambini quando un gioco che ti diverte tanto, a un certo punto, deve finire: “È pronto a tavola”, “bisogna andare via”, e invece questo gioco qui poteva continuare per sempre. Oddio, per sempre non lo so, diciamo che per ora non mi ha ancora stancato.

Cosa ascoltavate nei viaggi in macchina con i genitori?
I miei non ascoltavano moltissima musica in realtà, poca roba. La musica mi è sempre piaciuta, però le canzoni che mi colpivano le scoprivo dai film, tipo, che ne so, in Senti chi parla c’era roba fighissima, Janis Joplin, i Beach Boys. Da lì mi è nata la curiosità.

Cosa ti aspetti da Schegge, qual è la tua massima ambizione?
Ci sono dei maestri che mi farebbe piacere se ascoltassero il disco, e miracolosamente gli piacesse. Se proprio devo sognare, ricevere i complimenti di Paolo Conte.

Non mi sembra il tipo da lasciarsi andare a grandi complimenti…
Vero, credo sia praticamente impossibile. In generale non ho aspettative precise, spero che qualcuno ascoltandolo possa sentire qualcosa. È il motivo per cui si fa musica, esprimere qualcosa in cui ti riconosci, e quando qualcun altro riesce a entrarci è sempre una grande soddisfazione.

Come hai fatto a diventare così amico di Laurent Brancowitz dei Phoenix?
Ha sentito il mio primo disco grazie a sua moglie, ero in Sicilia e la manager dei Phoenix ha contattato la mia casa discografica che poi ci ha messi in contatto, ci siamo conosciuti e siamo diventati molto amici.

Natalie Portman ha debuttato alla regia nel videoclip di un tuo brano, Haute saison, dove hai collaborato con il duo francese Rob & Jack Lahana. Hai conosciuto anche lei?
No, non l’ho mai incontrata.

Neanche su Zoom?
No, però ci siamo scritti su Instagram dopo che è uscito il video, abbiamo scambiato due messaggi. Se te lo stai chiedendo no, non ho il suo numero di telefono.

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