Nel suo memoir The Gastronomical Me M. F. K. Fisher afferma che quando scrive della fame sta in realtà parlando di amore e della fame d’amore. Ed è su questa nota che si apre la quarta stagione di The Bear, la serie creata da Christopher Storer con protagonisti Carmy (Jeremy Allen White) e Sydney (Ayo Edebiri), accompagnati dai dipendenti del ristorante The Bear e il clan Berzatto. L’ultima stagione di The Bear inizia con un dialogo tra Carmy e il fratello Mikey sul significato dei ristoranti, luoghi che creano un senso di appartenenza, in cui rifugiarsi per dimenticarsi della propria vita per un po’ e stare bene il tempo di qualche portata.
Confusionario e dissonante
Questo idillio sembra però quanto di più distante da ciò che realmente accade nella cucina di Carmy che attraverso le diverse stagioni abbiamo imparato a conoscere tra urla e scoppi d’ira, tensione, ritmo incalzante e dialoghi spezzati. La quarta stagione riprende lì dove era finita la terza, ovvero con l’uscita della recensione del Chicago Tribune che definisce il ristorante confusionario e il menù dissonante. Due aggettivi che descrivono lo stato in cui versa la cucina e le persone che ci lavorano che, però, da questa stagione, sembrano avere la possibilità di cambiare per il meglio, per davvero, questa volta. A differenza della seconda stagione che sembrava abbandonarsi con troppo gusto all’ottimismo puritano del sogno americano, in questi ultimi dieci episodi la speranza che tutto possa andare per il meglio scorre placida, senza tragicità e impennate di sentimentalismo.
Il morale di tutti è a terra: lo “zio” Cicero (Oliver Platt) e Computer (Brian Koppelman) hanno posizionato in cucina un conto alla rovescia con il tempo che rimane al ristorante prima di esaurire i fondi. Entro due mesi il fatturato di The Bear deve crescere, e sembra riuscirci solo grazie alla vendita dei panini supervisionata da Ebraheim (Edwin Lee Gibson), attività che viene portata avanti parallelamente al ristorante vero e proprio. Ma le cose paiono andare meglio anche quando Carmy decide di fare un passo indietro e ascoltare Sydney che riduce gli ingredienti delle portate, quando Luca (Will Poulter), mentore del pasticcere Marcus a Copenhagen, arriva in aiuto come stagista e Richie (Ebon Moss-Bachrach) assume il personale di sala di Ever (tra cui l’efficientissima Jessica), il ristorante stellato che aveva chiuso nella stagione precedente.
Ma al di là degli avvenimenti e fattori pratici che scuotono la cucina, The Bear, come aveva scritto Sophie Gilbert sull’Atlantic nel 2022, si riconferma una serie che indaga la mascolinità e le relazioni che instauriamo con la famiglia, sia quella in cui nasciamo, sia quella che ci scegliamo. Come ogni luogo di adrenalina e stress, la cucina viene considerata un ambiente lavorativo maschile, in cui regnano tensione, rigide gerarchie e conseguenti traumi. Eppure, in questa ultima stagione, la cucina di The Bear piano piano si trasforma, sotto la direzione attenta, inflessibile e molto femminile di Sydney che finalmente diventa un personaggio indipendente, slegato da Carmy e dalle sue frustrazioni, come scrive Kathryn VanArendonk per Vulture.
La scelta di Sydney
Ed è proprio Syd che porta avanti non solo il ristorante, ma la storia stessa. Sydney deve decidere se rimanere nella cucina caotica e famigliare di Carmy o se seguire Adam Shapiro, chef talentuoso e logorroico che le ha promesso totale libertà, ma soprattutto un ambiente privo di traumi e di un passato irrisolto sempre pronto a prendere il sopravvento sul presente. Sydney è talentuosa, sa essere autorevole senza gridare, ed è capace di ascoltare e insegnare e di portare cambiamento. Ma è, sopra ogni altra cosa, il personaggio che semplifica e sbroglia il caos di emozioni represse e parole non dette nel resto dei personaggi. Syd rende il menù più essenziale ma non per questo meno raffinato, ed è Syd che consiglia a Richie di semplificare i discorsi motivazionali per il personale. Ed è sempre lei che trova piacevole, semplice, parlare con Donna, la madre di Carmy, al matrimonio della ex moglie di Richie, Tess, un’occasione potenzialmente catastrofica vista la concentrazione dei sanguigni Berzatto in una sola stanza.
La scelta che Sydney deve prendere non è solo di carriera, ma è una scelta intima di cura delle persone che ruotano attorno a The Bear, la famiglia del lavoro, così come la definisce Donna. The Bear parla di cibo per parlare di fame d’amore, di ciò che ci lega alla vita e che ci fa rimanere in piedi. È una storia di relazioni: quelle che diamo per scontato e rivelano la fragilità della vita, come quella tra Syd e il padre, quelle che si trasformano con lentezza esasperante ma mai troppo tardi, come quella tra Carmy e la madre, quelle che rimangono incastrate nel dolore e in un passato troppo recente, come il rapporto incrinato tra Marcus e il padre. Ma poi ci sono anche le relazioni che crescono piano piano e ci rendono persone migliori, e tra tutti il personaggio che le esemplifica al meglio è Richie. Il cugino che sbraitava, terrorizzato di apportare modifiche all’ecosistema delicato del ristorante, ora accudisce, consiglia e dice al cugino Neil Fak (Matty Matheson) con sicurezza, in un abbraccio, “sei bello”.
Ciao maschi
La quarta stagione di The Bear indaga il mascolino per lasciarselo alle spalle e trovare un equilibrio femminile: gli episodi sono intensi, a tratti commoventi, morbidi, eppure taglienti e precisi nei dialoghi. Non c’è la lentezza stagnante della terza stagione, né l’ansia testosteronica della prima, e la serie sembra aver trovato una direzione chiara. Come scrive sempre Vulture, ciò che affascina di The Bear è vedere come la narrazione specchia ciò che accade nella cucina: così come la narrazione diventa più femminile, a sua volta il ristorante trova un suo equilibrio grazie alla direzione femminile di Sugar, neo mamma dolce e inflessibile, Jessica e, ovviamente, Syd. The Bear racconta di ciò che possiamo diventare quando ci apriamo all’altro, senza paura del cambiamento e di perderci, quando ci chiediamo con sincerità se la vita che conduciamo è ciò che vogliamo per davvero. Quando capiamo che quello che siamo è indissolubile da chi ci sta attorno e sfamiamo quella fame, scomoda e profonda, di cui parlava Fisher.