La star è la protagonista del bizzarro video "Beth’s Farm", che anticipa il secondo album del musicista e collaboratore di Lanthimos.
Uketsu, Strani disegni (Einaudi)
Traduzione di Stefano Lo Cigno
Tra le mie letture preferite c’è da anni il thread Reddit r/nosleep. È un posto in cui scrittori più o meno dilettanti, più o meno bravi pubblicano brevissimi racconti dell’orrore. Di solito, l’asticella sta molto in basso o molto in alto: spesso capita di rileggere l’ennesimo creepypasta internettiano rimasticato da quello che crede di essere il primo ad aver scoperto Slender Man; talvolta capita di leggere il racconto di quello che effettivamente si è inventato Slender Man. Non mi stupirebbe scoprire che tra gli scrittori che ho letto in questi anni su r/nosleep c’è anche Uketsu. Uketsu magari prima di diventare uno degli youtuber più famosi e inquietanti del Giappone, Uketsu prima che una casa editrice attirata dalla luce emanata dai suoi follower gli chiedesse di scrivere un libro, Uketsu prima che il suo libro Strani disegni vendesse tre milioni di copie in patria e venisse tradotto in mezzo mondo, Italia compresa. Certo, le prodezze che l’autore compie sui social aiutano a promuovere il libro (i social media manager di Einaudi non si saranno mai divertiti tanto come nella scorsa settimana), una buona parte di quei tre milioni di copie si spiega sicuramente così. Ma nel successo di Strani disegni c’entra sicuramente anche la facilità e familiarità del testo, soprattutto per due generazioni (i Millennial e i Gen Z) abituate all’horror dozzinale di r/nosleep e di decine di romanzacci, filmacci, fumettacci, videogiocacci di genere che escono ogni anno. Leggere Strani disegni – un whodunnit fatto di psicologie elementari, spiegazioni pedisseque e disegnini strani – viene facile se si è già consumatori di prodotti simili: il libro è diviso in scenette, si articola in parole elementari e prosegue per collegamenti ovvi, e leggerlo è una soddisfazione, è piacevolissimo, come sciogliere con un tocco soltanto un nodo stretto male. Non fa paura, ovviamente, Strani disegni, nonostante racconti una storia violenta (ma a chi può fare impressione, oggi, la violenza dell’horror?). Non fa paura a meno che non lo si prenda per quello che probabilmente è: un’operazione meta – meta cosa è da decidere, meta letteraria mi pare eccessivo – una presa in giro fatta da uno che vive su internet e che eccelle nell’unica cosa a cui internet sia mai servita davvero: cazzeggiare, sfottere chi internet non la capisce davvero, non la frequenta altrettanto. In fondo lo dice Uketsu stesso, nel libro: «Online si trova di tutto». Persino un buffo e inquietante tizio, vestito di nero, mascherato di bianco, diventato famoso facendo balletti scemi e unboxing di giocattoli fatti con unghie umane. Su internet si trova pure il libro che qualcuno ha pensato di far scrivere a un personaggio del genere. E recensioni come questa, che un tizio del genere lo prendono pure sul serio. (Francesco Gerardi)

David Wojnarowicz, Sul filo della lama (Miraggi Edizioni)
Traduzione di Chiara Correndo
Nel 2018, in occasione di un’importante mostra al Whitney Museum a lui dedicata, avevo scritto un articolo sulla riscoperta di David Wojnarowicz, avvenuta forse anche per merito di Olivia Laing, che nel suo bellissimo libro Città sola, uscito nel 2017, dedicava alla difficile vita dell’artista e alle sue opere alcune delle pagine più belle. Oltre che per i suoi film (uno appena proiettato al MoMA nella sua rassegna di cinema queer) e per le sue opere tra fotografia e perfomance (ad esempio la bellissima serie degli anni Settanta “Arthur Rimbaud in New York”, che ritrae i suoi amici mentre girano per la città indossando una maschera che riproduce il famoso ritratto del poeta, caricando così di eternità, mistero e poesia quelle che erano le loro attività quotidiane), Wojnarowicz è l’autore di un piccolo e potente libro, Close to the Knives: A Memoir of Disintegration, un “memoir” pubblicato nel 1991, un anno prima della sua morte per Aids, che in realtà è una raccolta di testi molto diversi tra loro scritti con un tono mutevolissimo – delirante, erotico, umoristico, ingenuo, feroce, malinconico – in cui l’artista prova a catturare i momenti più intensi della sua vita e della New York sporca e oscura in cui trascorreva le sue giornate e, soprattutto, nottate. Oggi finalmente questo libro arriva in Italia grazie a Miraggi edizioni, con un’introduzione di Chiara Correndo, che l’ha tradotto, e una postfazione di Jonathan Bazzi. Parlando degli anni in cui Wojnarowicz scrisse Sul filo della lama, Correndo scrive: «Dietro gli schermi che i media e le istituzioni ogni volta srotolano e su cui proiettano il film di un’America bianca, ricca, imperialista, cristiana ed eterosessuale, ci sono i cadaveri impilati dei morti per Aids, le popolazioni ridotte alla fame dalla politica imperialista statunitense, i suicidi dei giovani e delle giovani omosessuali che si vedono negato ogni spazio di esistenza, la violenza della polizia». Per fortuna oggi alcune cose sono cambiate, ma l’atmosfera non sembra poi così diversa. E infatti Wojnarowicz continua a parlare agli artisti di oggi: la locandina del nuovo film di Ari Aster, Eddington, è una sua opera, la stessa usata dagli U2 nel 1991 per il loro singolo “One”. (Clara Mazzoleni)

Andrew Porter, La vita immaginata (Feltrinelli)
Traduzione di Ada Arduini
C’è una cosa molto difficile da fare in letteratura, ed è: tenere alta l’attenzione del lettore per un mistero che, di pagina in pagina, non solo non si svela, ma sembra che si sveli, e invece si infittisce. Non parlo di un mistero da thriller o romanzo di genere, ma di un mistero umano, una faccenda di fallimento e sentimento. La vita del titolo è quella che Steven immagina di suo padre, accademico un tempo in rampa di lancio e poi fallito, finito male e scomparso dalla sua vita, e da quella di sua madre, in modi misteriosi. Questo mistero si muove su molti livelli: un complotto dei colleghi universitari, per esempio; il suo rapporto complicato con l’alcol, e forse una condizione bipolare mai diagnosticata; ma anche dei pregiudizi – siamo nell’America degli anni Settanta – su una sua presunta bisessualità, rapporti ambigui con alcuni colleghi, che avvelenano il matrimonio con la madre di Steven e, in fin dei conti, il rapporto padre-figlio. Non sappiamo quando è sparito, né come né perché. Il motivo in realtà non lo sa nemmeno lui, Steven: per questo, a quarant’anni circa, si mette a cercarlo. Seguendo le piste lasciate dai suoi diari, quelle tracciate dai suoi ricordi, e incontrando diversi ex colleghi di dipartimento. Un po’ Broken Flowers, ma più tenero, fragile e cupo. L’avevo iniziato anche su invito di questa copertina così estiva, e invece la California si mostra nel suo lato più crepuscolare. (Davide Coppo)

Daniel Schreiber, Il tempo della perdita (add Editore)
Traduzione di Barbara Ivančić