Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a settembre in redazione.

di Studio

Marco Rossari – L’ombra del vulcano (Einaudi)

La trama: uno scrittore/traduttore viene incaricato di tradurre uno dei testi sacri del Novecento – Sotto il vulcano di Lowry – proprio mentre la più lunga e importante relazione della sua vita sta per chiudersi. Amore per la letteratura e amore per l’amore (soprattutto per il ricordo dell’amore) si intersecano e si abbracciano in questo libro che mi aspettavo (e forse mi era stato raccontato) come il primo vero libro non fiction (sì, che palle) di Marco Rossari, e che invece si rivela semplicemente un libro di Marco Rossari, i cui capisaldi poetici, fiction o non fiction, restano alcol, battute, scenette sgangherate del mondo editoriale, relazioni in crisi o finite da idealizzare esageratamente, scopate fugaci con cui deprimersi, spruzzate di critica letteraria en passant, e una serie di digressioni esotiche, che sono secondo me la parte più bella di questo libro, costituita da pagine che ripercorrono i viaggi, soprattutto asiatici, fatti dalla coppia che non c’è più (del resto cos’altro se non i viaggi resta come testamento di un amore finito?), e che mi hanno fatto pensare al Notturno indiano di Tabucchi o al Bangkok di Osborne. Difficile fare gli autorevoli se con uno scrittore ci vai a bere e ti mandi i whatsapp, ma se lo frequenti – mi dico – c’è sicuramente un motivo più alto del fatto che regge l’alcol più o meno come te, cioè quello che sia quantomeno bravo, se non qualcosa di più. (Cristiano de Majo)

Michael Bible – L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi)
Traduzione di Martina Testa

Certi libri hanno la loro forza nella concisione e certi editori hanno un talento per questi libri. In una giornata soltanto si legge questo Michael Bible dalla bella copertina, e mi ha ricordato pomeriggi passati con la testa dentro altri titoli sempre Adelphi, sempre così fulminanti e rapidi: Il falco pellegrino di Wescott, Proleterka di Jaeggy. È impossibile non parlare del ritmo per parlare di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, perché è lui il protagonista principale. Certo, la storia si annuncia “una bomba”: il de profundis di un ragazzino della provincia americana nel braccio della morte per aver arso vive 25 persone in una chiesa in un tentativo di suicidio andato male (per gli altri). E invece il confronto con il male assoluto, la strage, la morte, non è così presente. Nelle parole di Iggy si sente più che altro dispiacere e malinconia – «Rimpiango il futuro che non conoscerò mai», pensa una volta, mentre guarda sbocciare i fiori di corniolo fuori dalla sua cella. Eppure Iggy non è nemmeno il centro del libro: in cento pagine, il vero protagonista è l’evento, la strage, anzi, il suo riverbero: la cosa più interessante, originale e riuscita di questo libro è la descrizione del riverbero che la strage di Iggy ha sulla cittadina che l’ha subita, anche a distanza di anni. Bible mette in scena un coro, diversi personaggi che prendono la parola, uno per capitolo, e non tutti hanno avuto a che fare con l’assassino: ma l’eco di quel trauma ha segnato le loro vite, indirizzato anche le esistenze dei loro figli. Seminare frammenti della deflagrazione in vite che non ne sono state immediatamente investite è la grande idea di Bible. Il ritmo della lingua (e la traduzione di Martina Testa) prende per mano il lettore per trascinarlo fino alla fine, ma senza mettergli fretta. «A volte quegli anni mi piombano addosso come un improvviso acquazzone di primavera», dice un personaggio a un certo punto. Ecco. (Davide Coppo)

Tess Gunty – La gabbia dei conigli (Guanda)
Traduzione di Alba Bariffi

Tutte le recensioni, da quella del New York Times a quella del Guardian, citano l’inizio del libro. Lo definiscono un «incipit killer, in tutti i sensi». E in effetti funziona benissimo anche in italiano: «In una serata calda, nell’appartamento C4, Blandine Watkins esce dal proprio corpo. Ha solo diciott’anni, ma ha passato la maggior parte della sua vita desiderando che succedesse. È un’agonia dolce, come promettevano le mistiche. È come se la tua anima fosse trafitta di luce, dicevano le mistiche, e avevano ragione anche su questo. Le mistiche chiamano quest’esperienza Trasverberazione o Assalto del Serafino, ma a Blandine non appare nessun angelo. C’è, però, un uomo bioluminescente sulla cinquantina, che brilla come una lucciola. Corre verso di lei urlando». Oltre a queste prime 10 invidiabilissime righe, di questo romanzo d’esordio mi hanno incantato due cose che non hanno niente a che fare col contenuto: la copertina originale e la bellissima autrice, Tess Gunty, classe 1993, vincitrice del National Book Award nel 2022, inspiegabilmente introvabile su Instagram. Il romanzo è la versione “sobborgo americano” di Perec, La vita, istruzioni per l’uso, solo che qui siamo in un edificio chiamato “La conigliera”. Bandine, la protagonista, è magrissima, bellissima, intelligentissima, ossessionata dalle agiografie delle mistiche. Gli altri abitanti dell’edificio sembrano fare a gara a chi è più strano (dai tre coinquilini di Bandine, come lei cresciuti in affido perché nati in famiglie problematiche, tutti e tre contemporaneamente innamorati di lei, alla vicina quarantenne disadattata che lavora in un sito di necrologi). La stranezza si mescola con la banalità: sacrifici animali per conquistare un’anoressica che mangia solo verdure verdi, il figlio di un’ex attrice bambina di Hollywood il cui kink è cospargersi di vernice fluorescente per spaventare le persone di notte, la storia d’amore dell’adolescente geniale col suo professore (questo rientra nella banalità ovviamente), depressione post partum, un progetto di riqualificazione urbana da combattere, dialoghi deliranti. Se esistono l’overacting e l’overkilling, penso si possa anche parlare di overwriting, che è un po’ quello che succede qui. Quando finisci di leggere ti ritrovi in una versione sublimata della confusione mentale che provi dopo una serata passata a scrollare TikTok, quando senti di esserti avvicinato a una serie di intuizioni ma era tutto troppo e troppo veloce, e non hai avuto tempo di catturare quei momenti. Per fortuna, però, questo è un libro, e le intuizioni non devi averle tu: basta sottolineare quelle dell’autrice. (Clara Mazzoleni)

Daniel Schreiber, Soli (add editore)
Traduzione di Barbara Ivančić

C’è un modo di studiare, raccontare, infine vivere la solitudine che non sia necessariamente legato al concetto di mancanza? È la domanda che si pone in questo saggio – uscito in Italia lo scorso maggio grazie ad add editore – lo scrittore e giornalista tedesco Daniel Schreiber. La sua scrittura limpida e coesa attraversa molte descrizioni della solitudine e dei suoi apparenti opposti, come l’amicizia o la vita di coppia, indagando sulle tante etichette che, storicamente, abbiamo attaccato a questa condizione profondamente umana. Cosa significa davvero essere soli? Una vita vissuta da soli, in particolar modo tra le mura domestiche, in cosa si differenzia realmente da una vita vissuta con gli altri? E vivere da soli può essere, allo stesso tempo, una delle modalità sempre più diffuse della società contemporanea ma anche una delle più stigmatizzate? Schreiber mescola con eleganza e sincerità esperienze personali (vive da solo a Berlino, e da solo ha affrontato la pandemia, a cui dedica alcuni dei capitoli più intensi che faranno molto riflettere chi ha vissuto il lockdown allo stesso modo) a studi, articoli, libri e più in generale idee che hanno nel tempo scolpito l’immaginario collettivo riguardo a questo grande concetto inesplorato. L’uomo è un animale sociale, certamente, e l’autore non cerca mai di romanticizzare in nessun modo quello di cui scrive, e che vive: al contrario, ne offre una lettura sfaccettata e molteplice, che prende in considerazione come sono cambiati i rapporti tra le persone, il concetto di amicizia e amore romantico e quello, non da ultimo, di condivisione sociale. Soli è una lettura che consigliamo non solo a chi, banalmente, vive da solo ma a tutt*, perché non c’è essere umano che non abbia conosciuto la solitudine, e questo libro insegna a non averne paura. (Silvia Schirinzi)

Witold Szabłowski – Come sfamare un dittatore (Keller Editore)
Traduzione di Marzena Borejczuk

Tendiamo ad associare a ogni imperatore follie proporzionate al potere che possiedono: le loro tombe diventano meraviglie del mondo antico, i loro cavalli passano alla storia come senatori dell’impero, i liquidi che scelgono per le abluzioni mattutine – sangue, latte, la lista è lunghissima – diventano leggende. Lo stesso vale ovviamente per i cibi che arrivano sulle loro tavole. Il pasto del re è quasi un genere letterario a se stante, il mio esempio preferito resterà sempre la cena di Trimalchione nel Satyricon: se un liberto dell’Antica Roma mangiava così, chissà l’imperatore che abboffate stravaganti. Purtroppo la realtà è deludente, e a furia di leggere si scopre che le follie degli imperatori spesso sono soltanto storie: una persona capace di ordinare stragi e scatenare guerre e schiacciare popoli interi può essere la più banale, scontata, prevedibile del mondo. La prova di questo spesso la si trova a tavola. Witold Szabłowski – autore del bellissimo Orsi danzanti, anche questo edito in Italia da Keller – di queste prove ne ha raccolte diverse, raccontando la tavola di alcuni imperatori del Novecento. Saddam Hussein, che mentre decideva l’invasione del Kuwait chiedeva la zuppa di pesce alla ladrona, piatto tipico della natia Tikrit, villaggio di banditi spietati la cui fama Saddam non esitò a fare sua. Idi Amin, che forse non mangiava davvero i fegati dei suoi nemici, ma che certamente pretendeva di mangiare come loro: amava la cucina inglese, perché gli ex coloni avevano amato lui, la sua brutalità, il suo servilismo al punto di farlo diventare soldato fidatissimo. Enver Hoxha, che era sempre incazzato perché il diabete lo costringeva a cenare con un bicchiere di yogurt e basta, e per evitare fucilazioni in eccesso il suo cuoco doveva trovare un modo di cucinargli un dolce fatto con lo xilitolo che però sapesse di zucchero. Fidel Castro, che si faceva rabbonire solo da un pesce affogato in una salsa di mango densa il giusto. Pol Pot, che la notte aveva sempre mal di pancia, un dolore che solo l’insalata di papaya condita come si deve riusciva a chetare. Tutti affezionatissimi alle parti più scontate e abitudinarie delle loro tradizioni gastronomiche, proprio come le persone che imperatori non sono. Tiranni recenti raccontati dai cuochi che li hanno sfamati mentre quelli decidevano la prossima svolta nella storia di nazioni, continenti, mondi. Un po’ No Reservations di Anthony Bourdain, un po’ confessionale, un po’ sfogatoio, un po’ retroscena, un po’ satira post mortem, con digressioni culinarie che ricordano il pirata di Thomas Pynchon che racconta la sua leggendaria colazione alla banana nelle prime pagine dell’Arcobaleno della gravità, Come sfamare un dittatore è l’ennesima prova che al potere (al male) non corrispondono follie ma solo banalità equivalenti. Anche a tavola. (Francesco Gerardi)