Forse la frangia non è una tendenza ma il risultato, in forma di taglio, dell'intento di una donna di distinguersi dalle altre.
«Nella mia vita ho sofferto più per i capelli che per amore», ho scritto qualche mese fa a un’amica mandandole un selfie – il ventesimo in pochi giorni – in cui le mostravo come avevo provato a sistemare il nuovo taglio. Ho trentasette anni, un lavoro stabile, una rete affettiva solida, una casa che finirò di pagare quando avrò sessant’anni ma che mi fa sentire al sicuro e, soprattutto, una vita interiore. Eppure, e non lo dico senza imbarazzo, negli ultimi nove mesi la quasi totalità delle mie energie mentali sono state assorbite da una cosa sola: i capelli.
Prima di decidermi a tagliarli ci ho pensato a lungo. Ho pagato un’app per simulare diverse acconciature intorno al mio viso, collezionato decine di foto di riferimento nella galleria del mio telefono. Li portavo lunghi da molti anni; per asciugarli ci mettevo più di mezz’ora ma mi piacevano, mi facevano sentire carina e dissimulavano, o almeno così credevo, i difetti del mio viso.
È stato un desiderio estetico a muovermi, segretamente pungolata dall’idea che da qualche parte esistesse la versione più bella e quindi più felice di me, che dovessi cambiare per scoprire quale fosse. Ma c’era anche una scena che mi girava in testa. Mi vedevo la mattina presto, accucciata a scrivere sul divano su cui scrivo sempre, indubitabilmente io ma più a fuoco, come distillata, purissima. In quella fantasia non rimandavo la sveglia, non perdevo tempo col phon e soprattutto scrivevo, scrivevo senza distrarmi o guardare il telefono o riaddormentarmi o rattristarmi per quello che non riuscivo a scrivere. La correzione del mio modo d’essere, questo sogno di vita nuova, si condensava in un gesto da poco: battevo sui tasti, mi fermavo per rileggere, portavo una mano fra i capelli, li stropicciavo un po’ e questi anziché ricadermi sulle spalle rimanevano lì, corti, disordinati come quelli di Winona Ryder negli anni ’90, protetti dallo spirito di Jo March che veglia su tutte le donne che rinunciano ai propri capelli pur di scrivere all’alba.
Il primo taglio è andato bene. Ho chiesto un long bob rassicurante, che mi permettesse di vedere ancora la mia faccia protetta dalla cortina dei capelli. Di fatto ero uguale a prima, ma rinunciare a venti centimetri di capelli ha significato distanziarmi dall’immagine della bellezza che ancora mi porto dietro dall’infanzia, plasmata dalle principesse che hanno codificato la struttura della mia femminilità, e dalle attrici e modelle che solo in rari casi, e spesso per esigenze di copione o per un momento di debolezza testimoniato dai magazine di tutto il mondo, hanno portato i capelli corti. Totally Hair Barbie, uscita nel 1992, aveva i capelli lunghi fino alle caviglie. È stata la Barbie più venduta di sempre. Chiaramente, era la mia preferita.
Nel salotto di mia madre c’è una mia fotografia in bianco e nero. Ho quattro anni, sono sdraiata su un divano a righe, è estate e indosso un vestito a fiori che lascia scoperte le mie gambe cicciotte, che ancora non sono un cruccio. È una foto piuttosto bella ma io la odio, perché dietro al mio sorriso che si finge sereno io vedo, me la ricordo, tutta la disperazione di quel pomeriggio in cui ero uscita dal parrucchiere con un taglio a scodella che mia madre definiva, con una punta di sofisticato orgoglio, “alla maschietta”. «Infatti sembro un maschio!», le avevo gridato nascondendomi fra i cuscini del divano, minacciando di non uscire più di casa. «Ma ricrescono, cosa vuoi che sia», mi aveva risposto lei, mi hanno risposto tutti.
«Sembro un maschio!» ho ripetuto quest’inverno fra i singhiozzi a mio marito che, disorientato, non sapeva bene cosa fare se non abbracciarmi da dietro, e cercare di calmarmi baciandomi la nuca, ora scoperta e vulnerabile. Perché chiaramente – ma lo sapevo, che sarebbe andata così, lo sapevo – non sono riuscita a fermarmi a quel primo taglio così rassicurante. Mi sono sentita forte, ho peccato di hybris, e a chi provava a dissuadermi dal tagliare ancora rispondevo appellandomi tanto a ragioni strutturali – ho tanti capelli, e spessi, un taglio mediano me li gonfia – quanto a ragioni di stile – «È un taglio da ciellina», sentenziavo – ma la verità era che la ragazza che avevo fantasticato di diventare non portava i capelli di quella lunghezza. Era più audace di così.
Esistono due categorie di donne: quelle che, una volta individuato il parrucchiere da cui si trovano bene gli giurano fedeltà eterna, anche a costo di fare chilometri per raggiungerlo, e quelle che cambiano sempre, perché come fai a essere sicura che non ci sia, da qualche parte, qualcuno di più bravo, che sia capace di scrutare attraverso la massa dei tuoi capelli per tirarne fuori la forma perfetta, come Michelangelo davanti a un blocco di marmo? Io, chiaramente, appartengo alla categoria di quelle che non si danno pace. Solo per brevi periodi mi sono fidelizzata a un certo salone, e spesso per motivi che coi capelli non c’entravano niente – per dirne una, ho frequentato a lungo un parrucchiere giapponese carissimo e non particolarmente bravo, ma che parlava poco, teneva la musica bassa e mi permetteva di leggere in pace. Mi sembrava già tantissimo.
Comunque, visto che mi sentivo così forte, per il secondo taglio la scelta è ricaduta su un salone di tendenza dal nome tedesco, l’arredamento del bar di Arancia meccanica, decine di wolf cut sulla pagina Instagram. «Vorrei una cosa del genere», ho detto al ragazzo che di lì a poco mi avrebbe sfilacciato i capelli con uno sfilzino, mostrandogli un french bob subito sopra al mento. Lui ha annuito e mentre mi legava la mantellina ho pensato «Chissà se vediamo la stessa immagine». Se il mio sistema percettivo e il suo sono affini, se ha capito che non sono cool come la giovane influencer a cui taglia i capelli tutti i mesi, che sto ostentando più sicurezza di quanta ne possegga, che in fondo sono una truffa.
Un’ora e centoventi euro più tardi, in metropolitana, ho mandato una foto a mio marito. La riguardo ora e vedo chiaramente il panico veleggiare dietro ai miei occhi. Lui ha risposto «È più Berlino che Parigi, ma stai bene!». La verità è che sembravo Steven Tyler negli anni ‘80. Che cosa è successo dopo, sto ancora cercando di capirlo. Secondo la mia terapeuta quel mullet in cui non riuscivo assolutamente a riconoscermi ha innescato un principio di dissociazione, un disturbo ossessivo forse non così lieve.
Ho tagliato i capelli la prima volta perché lo volevo. Ho continuato a farlo perché non riuscivo a pensare a nient’altro. Ho perso la capacità di abitarmi da dentro – la vita interiore, dicevamo –, come se sul fondo della mia coscienza venisse proiettata costantemente un’immagine di me vista da fuori, odiosamente fuori posto, analizzata, valutata da chi mi stava a guardare a partire dai miei capelli. L’inferno sono gli altri, ha scritto Sartre, o i loro sguardi, o le parole che dicono e quelle che tacciono – “Non mi ha detto che sto bene”, “Avrà pensato che sono ridicola”.
Quando sono tornata a casa, quel pomeriggio, ho sfoderato le forbici da parrucchiere che avevo acquistato durante la pandemia e ho provato a pareggiare quei ciuffetti sparuti che mi ricadevano sul collo – qualche settimana più tardi mio marito mi avrebbe trovata in bagno, di notte, a tagliare ancora, e la scena si sarebbe ripetuta altre volte.
Sono poi tornata dalla prima parrucchiera, quella del taglio da ciellina, che ci ha provato, ad aggiustare la forma dei miei capelli, ma poi mi ha detto che si trattava solo di avere pazienza e farli ricrescere. Avrei potuto avere le tette più grosse o il naso più sottile in poco tempo, se avessi voluto. Sarei potuta dimagrire appellandomi alla mia sola forza di volontà, ma sui miei capelli non avevo più nessun tipo di controllo, c’era solo da aspettare, e io non ne sono capace.
Nel tentativo di riprenderlo, il controllo, di riacciuffare un’immagine di me che continuava a negarsi, sarei tornata altre quattordici volte dal parrucchiere, avrei fatto sei tinte in settantadue ore, speso una cifra di cui mi vergogno in prodotti per capelli. Avrei tagliato delle ciocche mentre ero al lavoro, con delle forbicine da unghie, prima di un appuntamento importante. Avrei buttato ore della mia vita a guardare reel di capelli. Avrei tormentato tutte le persone che mi vogliono bene, quelle che conosco solo superficialmente e anche ChatGPT. Avrei pensato di scrivere un romanzo su una donna che sbaglia taglio e la sua vita va a rotoli. Mi sarei scrutata allo specchio ogni giorno con lo stesso rancore con cui fissavo le versioni di greco nel tentativo di rintracciarvi una struttura che sbrogliasse il disordine e ricomponesse un quadro che ai miei occhi avesse un senso. Mi sarei odiata.
«I capelli sono tutto», scandisce Fleabag al parrucchiere che ha appena tagliato – male – i capelli a sua sorella Claire. Ho citato spesso questa frase negli ultimi mesi, ma avevo dimenticato come si concludesse la scena. «Perderò il lavoro», dice Claire, «La mia vita è finita». È disperata quando incrocia per strada un suo vecchio flirt, un bell’uomo biondo ed elegante che subito però la riempie di complimenti per il nuovo taglio, che è così cool, le dice, così irriverente, «da pop star!». Lei non sa bene se credergli o se la stia solo prendendo in giro, ma poi lui la invita a bere una cosa e i tratti del suo volto si distendono, trova pace con se stessa, coi suoi capelli. Si affida allo sguardo di un uomo che la desidera.
Ecco, non so se questa conclusione possa essere davvero valida. Soprattutto non so se sia auspicabile demandare, di nuovo, il modo in cui una donna si osserva, e si valuta, al modo in cui la osserva, e la valuta, un uomo in abito blu. Preferisco pensare che l’amica a cui avevo mandato quei venti selfie sia stata più saggia di Phoebe Waller-Bridge quando mi ha risposto «Ti prego, togli la fotocamera frontale», e poi, visto che è psicologa, «Il nostro cervello non è fatto per avere un’autopercezione così chiara di noi. Prova a non guardarti per un giorno».
Quando, tempo dopo, mi sono proibita di farmi altri selfie, non è stato per seguire il suo consiglio che nel frattempo avevo anche dimenticato, ma per l’esasperazione e la fatica. Perché la nostalgia che provavo per la mia forma precedente, che non riuscivo a far tornare ma neppure a lasciare andare, mi provocava un dolore quasi fisico, e tutte quelle foto della mia faccia nella galleria mi rattristavano oltremodo.
E però, a forza di non guardarmi, è successo che mi sono pensata ogni giorno un po’ di meno. Ho dismesso i panni dell’unica attrice sul palco per tornare a essere la scenografia, la base del mio pensiero. Un poco alla volta mi sono dimenticata di me stessa e mi sono ricordata delle cose del mondo, e ho scoperto con stupore non si erano mai mosse, enormemente più interessanti e affidabili e vive dei miei capelli – cortissimi, adesso, che se li stropiccio rimangono in disordine.