Cultura | Dal numero

10 anni di KALEIDOSCOPE

Da rivista indipendente a spazio espositivo ad agenzia creativa, il co-fondatore Alessio Ascari racconta storia e futuro del progetto milanese.

di Studio

Artifact @ Spazio Maiocchi

Fondata a Milano nel marzo 2009, KALEIDOSCOPE è oggi una piattaforma composta da un magazine internazionale di arte e cultura contemporanea, uno studio creativo e uno spazio espositivo a Milano. Per celebrare il suo decimo compleanno abbiamo parlato con Alessio Ascari, fondatore e direttore creativo.

Com’è nata KALEIDOSCOPE?
Come molte riviste indipendenti, è nata dalla visione creativa di un piccolo team, formato in primis da me e dalla mia compagna Cristina Travaglini. Avevamo l’urgenza di svecchiare e anche disturbare il panorama editoriale, raccontando degli immaginari, ed eravamo impazienti di ritagliarci uno spazio in cui poterlo fare, in una realtà, quella italiana di un decennio fa, dove lo spazio a due ragazzi poco più che ventenni non lo avrebbe dato nessuno.

Come la immaginavi da grande?

Simile a come è adesso. Fin dall’inizio abbiamo concepito una rivista che esistesse non solo su carta, inaugurando la formula dell’ufficio editoriale che fosse anche uno spazio espositivo. Ho sempre viaggiato come un matto, portandomi le copie della rivista in valigia, cercando di vedere quante più mostre possibile, incontrare quante più persone possibile, visitare quanti più studi di artisti possibile. Non me lo hai chiesto, ma sarebbe questo l’unico consiglio che darei a un editore emergente: non lasciarsi risucchiare dalle dinamiche locali e mettere sempre il proprio lavoro in prospettiva con quello che succede fuori.

Dieci anni, tempo di bilanci: KALEIDOSCOPE ha raggiunto gli obiettivi che ti eri prefissato all’inizio? O crescendo ha cambiato strada?
Non direi che l’identità del progetto è cambiata, mi piace pensare che lo spirito che ci motiva sia sempre quello originario. Però mentirei se ti dicessi che la rivista non si è trasformata e a riguardare alcuni vecchi numeri mi vergogno un po’, ma penso sia normale. I dieci anni di KALEIDOSCOPE sono stati quelli tra i miei 25 e i miei 35, per cui una metamorfosi anche personale è senz’altro avvenuta e si è riflessa inevitabilmente sulla rivista. Parlando di obiettivi, sicuramente una strategia perseguita negli anni è stata il graduale spostamento dal mondo dall’arte contemporanea in senso stretto ad una comunità creativa globale più ampia, in dialogo con scene adiacenti come la moda o la musica. Qualche anno fa abbiamo smesso di definirci un magazine di arte contemporanea e il claim della rivista è diventato «visual culture now», che per me è una dichiarazione d’intenti e incarna lo lo spirito dei tempi. Può essere anche un spunto di riflessione per il mondo dell’arte, che se vuole sopravvivere deve diventare meno autoreferenziale e conservatore. Quello che si respira in molte gallerie, musei e fiere d’arte è un clima novecentesco, in questo momento l’avanguardia è altrove ed è lì che un magazine di cultura contemporanea deve stare con la testa e con i piedi.

Com’è cambiata la scena editoriale-artistica internazionale?
Faccio parte di una generazione che ha cominciato a lavorare a cavallo della rivoluzione culturale più significativa degli ultimi anni, l’avvento dei social. KALEIDOSCOPE è nata in un’era pre-Instagram. Ora è lì che si muovono la ricerca, le pubbliche relazioni, il mercato e l’hype. Nella scena editoriale-artistica, ho visto mutare il linguaggio scritto e visivo in risposta ai nuovi comportamenti digitali.

Come è cambiata Milano e com’è cambiato il vostro rapporto con la città in questi anni?
Sono nato e cresciuto a Milano e dal mio punto di vista è sempre stata una città cool e internazionale. Nel caso di KALEIDOSCOPE, sicuramente l’apertura di Spazio Maiocchi è stata game-changing nel nostro rapporto con la scena cittadina. Grazie alla visione coraggiosa di Slam Jam e Carhartt WIP, che ci hanno coinvolto nella direzione creativa dello spazio dal giorno uno, abbiamo potuto immaginarlo come uno spazio da restituire alla città, dove rimescolare un po’ le carte mettendo in dialogo scene creative diverse. Molti artisti a Spazio Maiocchi hanno avuto il loro primo progetto personale a Milano e in Italia, da Arthur Jafa (Leone d’Oro all’ultima Biennale di Venezia) ad artisti giovani come Korakrit Arunanondchai, Anna Uddenberg e Darja Bajagic. La ricerca che ci muove è quella sulla nuova avanguardia, spaziando dall’arte alla musica alla moda. Penso allo show del brand newyorchese Telfar o al takeover di una etichetta sperimentale come Pan Records, che per me vanno messi sullo stesso piano delle mostre vere e proprie. Milano è sempre stata la capitale italiana della moda, del design e dell’arte ma queste comunità seguivano traiettorie diverse e non si incontravano mai. Mi piace pensare a Spazio Maiocchi come un punto d’incontro che mancava.

Cos’è Artifact?
Se pensiamo a Spazio Maiocchi come a un anti-museo, Artifact sarà il nostro anti-museum shop. Al posto di quegli spazi orrendi che vendono cartoline e tazze d’artista, che funzionano come una cassa da cui ti obbligano a passare prima dell’uscita in molti musei del mondo, Artifact sarà il punto d’accesso dalla città agli spazi espositivi, aperto tutta la settimana, anche tra un allestimento e l’altro, e dove poter organizzare eventi più agili e in stretto contatto con la scena creativa locale. La filosofia rimane la stessa ma in formato “store”: merchandise d’artista, edizioni limitate, libri, riviste, oggetti di design, capi di brand emergenti, ed eventi pop up: il primo, a giugno duran- te la Fashion Week, sarà un progetto di Harmony Korine in collaborazione con Gucci. Per quanto riguarda il programma espositivo di Spazio Maiocchi, a giugno ci sarà una mostra che mette in dialogo Sterling Ruby, eclettico artista di Los Angeles, che presenterà la premiere europea del suo ultimo video sul sistema carcerario americano, e H.R. Giger, visionario artista svizzero creatore del concept design per Alien, figura leggendaria che ha ispirato intere generazioni con il suo immaginario post-apocalittico.

Parliamo del festival che ha appena avuto luogo a Parigi. Il tema era la sinergia tra menti creative di varie discipline. Un modello, quello “alla Virgil Abloh” che è molto vostro e immagino indichi una direzione da mantenere e sviluppare ulteriormente in futuro.
Il festival nasce da una sinergia con la fondazione artistica del gruppo Galeries Lafayette. Per tre giorni abbiamo “occupato” l’edificio di Rem Koolhaas nel cuore del Marais, trasformandolo in uno spazio per la produzione collettiva di idee e la casa di una comunità creativa spontanea. Abbiamo presentato un range di contenuti che rispecchia il nostro approccio editoriale ma in formato “live”: da Virgil Abloh, che in questo contesto ha presentato una nuova scultura sonora, alla performance del duo queer Young Girl Reading Group; dal collettivo newyorchese DIS al regista francese Romain Gavras; dal live set di una pop star come Kelsey Lu al workshop di un brand streetwear emergente come Total Luxury Spa, realizzato in collaborazione con una famiglia marocchina della banlieue. Il pubblico di Parigi è straordinario, multiculturale, curioso ma anche esigente, abituato a trattare la cultura come una cosa seria. Sono contento di poter annunciare che il prossimo anno, sempre a maggio, si terrà la seconda edizione.