Stili di vita | Cibo

Sarpi, la via cinese allo street food

Per la Chinatown milanese passa il futuro gastronomico della città: un mash-up pazzo e per questo ancora più affascinante di culture culinarie.

di Cristiano de Majo

Studio Taste, da cui è tratto questo reportage, è lo speciale cibo del numero 32 di Studio, in edicola dal 22 settembre. Oltre a questa storia, include un’immersione nella nuova editoria gastronomica e una chiacchierata con Paolo Lopriore, chef che sta ridefinendo l’esperienza della tavola in modo “interattivo”.

Sarpi è stata una delle prime strade di Milano, se non la prima, a diventare per me un paesaggio familiare. Succedeva più o meno tre anni fa. Mi piaceva andarci anche perché la mia prima casa era a dieci minuti a piedi. Mi piaceva camminarci e arrivare fino in piazzale Baiamonti. Più che per le atmosfere da Chinatown, per le architetture dei palazzi, tutti di altezza simile, ma ognuno con un suo carattere. Mi piaceva molto che fosse una strada che si trasformava progressivamente: più elegante e borghese la parte che inizia da piazza Gramsci, più cinese e incasinata quella che si sviluppa nella seconda metà e sbuca davanti alla Fondazione Feltrinelli (fino all’anno scorso ancora in costruzione). Ancora adesso, per ragioni personali, Sarpi continua a essere un centro intorno al quale mi muovo. Mi capita più spesso di andarci la domenica, quando la strada è affollata di famiglie e comitive di ragazzi cinesi. O di camminarci la mattina presto di un giorno feriale, quando i negozi sono ancora in parte chiusi e c’è una bellissima aria di preparazione che incrocia tutte le persone che a piedi o in bici iniziano la giornata di lavoro.

Paolo Sarpi
Paolo Sarpi, Milano (Davide Di Tria per Studio)

Dal mio arrivo a Milano sono passati solo tre anni, ma sembra che Sarpi sia già cambiata tanto. Dopo Expo, hanno iniziato ad aprire sempre più cucine, soprattutto cinesi ma non solo. Si è iniziato a parlare del progetto: qualcuno voleva farla diventare la food street di Milano. Nei discorsi da bar ho sentito tirare in ballo alternativamente l’influsso di Eataly o una strategia a tavolino dei “capoccia” della comunità cinese. Oggi ai grandi classici (le pizzerie, i tradizionali ristoranti cinesi, le storiche botteghe di formaggi, carni, salumi) si sono affiancati posti con un’estetica molto più contemporanea. Uno dei motori di questa trasformazione è stato il successo del bubble tea; l’altro, quello più recente del dim sum (ravioli, baozi).

Una volta ho cercato di capire quale fosse stato il primo locale bubble tea ad aprire in via Sarpi, ma non ho avuto mai la stessa risposta. Mi hanno parlato di un piccolo bar in via Messina, di un altro che sta vicino al Mall (il dozzinale negozione a due piani dove si vendono casalinghi, ma anche vestiti). È stato il momento in cui mi sono convinto di volerlo provare. Visto che mi passavano davanti agli occhi questi bicchieroni di plastica con la cannuccia pieni di quelli che mi sembravano dei frullati. Qualcuno mi aveva detto: «L’ho provato ma non lo riproverei».

È successo una domenica di impazzimento alimentare, di poca voglia di cucinare, di sole tiepido, con un sacco di gente, di famiglie, di ragazzi, di bambini, per strada, una domenica che, dopo esserci arrischiati a provare il cibo senza nome sulla bancarella del vecchietto sotto il gazebo della trattoria Gao (pane fritto, ravioli, baozi, un uovo al tegamino in pastella!), abbiamo varcato la soglia di una pasticceria nuova di fronte all’angolo Sarpi-Messina, un posto che si chiama Maki e che nelle intenzioni estetiche vorrebbe essere un bar-pasticceria molto à la page, ma che trasuda da tutti i pori la sua falsa sofisticatezza. Dopo esserci imbambolati davanti alle vetrinette con esposte le torte altissime pannose di mille colori, abbiamo ordinato i bubble tea (classici) e addirittura uno strano waffel e fatto di palline di pastella fritta ricoperte di gelato.

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Menù esposto in un ristorante di Chinatown (Davide Di Tria per Studio)

Non è semplice spiegare di cosa sa un bubble tea: è strano ma, al contrario di quel qualcuno, non escludo che lo riproverò. È una bevanda dolce e annacquata – tè e latte condensato di base – ma non proprio stuchcevole. Tirare dal fondo del bicchierone con la faccia di Doraemon le palline di tapioca con la cannuccia dal diametro speciale dà una certa soddisfazione, e comunque ti fa intuire perché la gioventù cinese (e da un po’ anche quella italiana) sia andata in fissa. Il bubble tea ha origini taiwanesi, come varie altre cose nello street food di Sarpi. Taiwan, mi sembra di capire, è per un giovane cinese quello che per un giovane italiano potrebbe essere Londra o New York.

A sentire Angela, la ragazza che da qualche mese ha aperto Foodie, i cinesi di Milano tornano nella madre patria, magari per un viaggio estivo o rivedere dei parenti, capiscono cosa succede, cosa tira, cosa sta piacendo in quel momento sulle strade cinesi, quindi lo riportano in Italia. Così ha fatto lei, aprendo questo minuscolo posto che già dal nome fuori tempo massimo non ispira moltissima fiducia e che, come la pasticceria, ha un’aria forzatamente contemporanea. Ma non bisogna mai fidarsi delle impressioni estetiche in Sarpi. Da Foodie, a parte il bubble tea d’ordinanza, si mangiano un paio di cosucce che non trovi – almeno io non ho visto – da nessun’altra parte: il takoyaki, deliziose e leggerissime polpette fritte di polipo (si possono trovare anche con altri ripieni), ricoperte di salse e alghe, di origine giapponese e, precisamente, come molto street food nipponico, di Osaka, ma poi diventate – spiega Angela – uno dei più richiesti street food in Cina del momento. Poi dei curiosi spiedini di vari gusti – granchio, tofu, fungo – cotti al brodo in versione piccante o non piccante. Si entra, ci si serve da soli, mettendo gli spiedini, su cui sono in lati tre pezzi a scelta, in un bicchiere e si paga alla cassa (pochissimo).

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Bevande esposte in un locale di Chinatown (Davide Di Tria per Studio)

Un posto simile a Foodie è Wan’z, meno recente tra i nuovi ingressi sarpiani, ma che almeno nella grafica dell’insegna cerca anch’esso di richiamare clientela giovane. All’interno è tutto un altro discorso. Si viene piombati in un grill forsennato che fa pensare, se non fosse per una parete coperta di post-it colorati su cui chissà cosa ci sarà scritto, a una bettola della Cina profonda più che a un locale per hipster taiwanesi. Qui si possono mangiare cose molto strane, per lo più assenti da un normale ristorante cinese (da provare una crepe-piadina ripiena di verza) e, se si è vena in di bizzarrie, lanciarsi coraggiosamente nella grigliata di interiora, chiedendo uno spiedino di cuore di maiale, per esempio.

Di sicuro c’è che la gioventù cinese di Milano è il principale target di questi localini. Evidentemente sono loro che escono, vanno in giro, mangiano per strada. Le famiglie, come mi disse il papà di un compagno di classe dei miei figli – l’ossuto Jinchao – quando gli chiesi di consigliarmi un ristorante, per lo più stanno a casa e, chi ha avuto la fortuna di entrare in un “palazzo cinese”, potrebbe aver pensato a Napoli, o a un generico Sud, passando davanti ai pianerottoli dove si cucina, già dalla mattina prestissimo, con le porte spesso aperte e qualche volta, accanto allo zerbino, verdure a cui non è possibile dare un nome lasciate fuori a seccare o ad asciugare (ma vi assicuro: non c’è nessuna poesia nel trattenere l’aria per non respirare l’odore di fritto alle nove del mattino).

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La ravioleria di Sarpi (Davide Di Tria per Studio)

I giovani, ma un po’ meno giovani – diciamo dai 25 ai 40 – e questa volta italiani, sono anche la popolazione prevalente di quell’ecosistema enogastro- nomico che è l’incrocio Sarpi-Messina (dove strategicamente ha aperto anche la pasticceria Maki). Qui la presenza storica di un luogo come Cantine Isola, frequentatissimo da sempre in orario aperitivo, ma adesso più che mai – la scelta di vini e l’assortimento di tartine ne fanno il posto dove tornare ogni volta e sentirsi al sicuro – ha fatto da base per un singolare gioco di specchi con il suo recente ma già amatissimo dirimpettaio, la ravioleria, che cucina appunto ravioli, baozi, involtini freschi da prendere e portar via per lunghissime code di avventori, usando carne al 100% italiana, come recita il cartello, proveniente dalla macelleria accanto, Sirtori, istituzione milanese.

In questo incrocio c’è scritto probabilmente il futuro di Sarpi, che sarà sicuramente cinese ma anche terreno di coltura per le fusioni più avventate: formaggi francesi (Re della baita è un ottimo indirizzo dove comprarli in Sarpi) su pizze napoletane; vini trentini per addentare cheeseburger; pasta italiana per cucinare i noodle. Come se qualcuno avesse dato carta bianca a uno scienziato pazzo del cibo, a Sarpi puoi mangiare tutto quello che vuoi – potrebbe essere questo il claim del nostro ufficio turistico – e poi magari finire la serata al karaoke: usando un touch screen con gli ideogrammi per scegliere “Hotel California”, bevendo birra Peroni se è finita la Tsingtao.

 

Fotografie di Davide Di Tria
Dal numero 32 di Studio in edicola dal 22 settembre