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Gli elettori di Ompundja, Namibia, sono così contenti del consigliere regionale Adolf Hitler Uunona che lo rieleggeranno Si vota il 26 novembre e il politico dallo sfortunato nome è praticamente certo di essere rieletto nel consiglio regionale dell'Oshana.
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Dopo la vittoria del Booker, le vendite di Nella carne di David Szalay sono aumentate del 1400 per cento  Nel gergo dell'industria letteraria si parla ormai di Booker bounce, una sorta di garanzia di successo commerciale per chi vince il premio.

L’insicurezza dello sceneggiatore

Storia delle fiction nella tv italiana a partire da un libro di Milly Buonanno, da Un Posto al Sole al melodramma sociale

21 Febbraio 2012

Milly Buonanno, da anni impegnata negli studi
sul television dramaindaga la storia, l’evoluzione
e i caratteri distintivi della narrazione
televisiva italiana.

Dalla quarta di copertina

È un peccato che certi saggi, in Italia si autorecludano, o più esattamente: vengano reclusi dalle case editrici nella nicchia della specialistica, come se i lettori di riferimento fossero un’entità già data, costituita per lo più, si suppone, da universitari, professori e studenti, più o meno interessati all’argomento per forza di cose.

È la sensazione che ho ricavato dando una prima occhiata a La fiction italiana (Laterza 2012) di Milly Buonanno, a partire dai paratesti, passando per la collana di collocazione – Libri del tempo, una linea che aspira alla serietà tecnica, con una mezza strizzatina d’occhio, più che altro estetica, al lettore generalista – per arrivare all’uso insistente, specie nella parte iniziale, di un linguaggio un po’ troppo accademico e quindi macchinoso e a tratti respingente. Un peccato, appunto, perché il libro potrebbe essere letto con curiosità e soddisfazione da molti, siano feticisti di faccende italiche o teledipendenti in rehab.

E sarebbe interessante per il solo fatto di essere un’accurata storia sintetica della fiction italiana, che una volta, agli albori della tv, si chiamava sceneggiato (o teleromanzo) e, a partire dagli anni Ottanta-Novanta, caso unico o raro, ha assunto una definizione in lingua straniera per identificare la produzione strettamente domestica. Buonanno ripercorre con dati e analisi, sempre molto acute, l’era primordiale degli adattamenti letterari, le prime miniserie, la stagione delle importazioni americane (Dallas e compagnia), i casi scuola della Piovra e del Posto al sole, che in modi e tempi diversi hanno portato alla costruzione e al consolidamento di un sistema produttivo interno di fiction televisiva, che negli anni Ottanta aveva visto la fase del suo massimo declino; mentre i capitoli finali sono dedicati ai generi che negli ultimi anni hanno sfondato: il poliziesco, il biblico/religioso, lo storico.

Il primo dato che mi ha abbastanza sorpreso, è che nel periodo che va dal 1954 al 1960, su 26 sceneggiati prodotti dalla RAI, 19 erano adattamenti di opere straniere, per lo più classici della letteratura europea, ma anche russa e americana. Scelta dovuta, secondo Milly Buonanno, non tanto allo scarno catalogo romanzesco dell’Otto-Novecento italiano, quanto all’«alto grado di apertura ai beni culturali non nazionali»; una caratteristica tipicamente italiana, ancora oggi in qualche modo presente. In questo caso non si parla dell’importazione di prodotti stranieri, ma della realizzazione italiana di testi scritte in altre lingue. L’importazione vera e propria incomincia, invece, con l’esplosione della televisione commerciale (film e telefilm dagli Usa, cartoni animati dal Giappone). Strategia che il nuovo broadcast privato utilizza proprio per differenziarsi dalle emittenti pubbliche – fino a quel momento molto sospettose dell’export cinematografico e televisivo americano, anche per ragioni legate all’estetica democristiana – riuscendo a mettere in piedi un perspicace piano di conquista dell’etere che pone «il non-nazionale al servizio di un progetto di radicamento nazionale».

La risposta della tv pubblica è, a questo punto, riportare il prodotto interno in primo piano. Un progetto di contrasto che viene realizzato, e premiato da risultati stratosferici, con La Piovra (1984), la miniserie a tema criminale, che si auto-replicherà fino al 2001, cioè molti anni dopo la morte del commissario Cattani. Proprio sulla Piovra, la Buonanno scrive le pagine più interessanti e profonde, analizzandolo come fenomeno non solo mediatico e inquadrandolo in modo convincente nella categoria del melodramma sociale. Alcuni passi significativi:

  1. La sintesi fra struttura melodrammatica «e qualcosa che passa per realistico» esercita una particolare attrazione, perché consente di abbandonarsi al piacere della narrativa avendo al tempo stesso la confortevole sensazione che stiamo apprendendo qualcosa di importante sulla realtà.
  2. Il melodramma sociale, prosegue Cawelti, trae vantaggio da qualsiasi cosa possa dare al racconto l’apparenza di un profondo significato sociale, e si sforza di farci sentire che ci sta offrendo l’opportunità di penetrare oltre la superficie degli eventi e delle istituzioni per scoprire «la sporcizia nascosta sotto il tappeto, il potere segreto insediato nel retroscena».
  3. È esattamente in questa miscela di melodramma e di critica sociale, di sollecitazione emozionale e di intento informativo, di trattamento spettacolare e di materia scandalosa, che riconosciamo la formula ambivalente della Piovra.
  4. Sia la perdurante eredità di una religiosità di stampo medievale con il suo sanguinante universo martiriologico, sia e soprattutto la lunga esperienza delle invasioni e delle dominazioni straniere […], hanno creato nella cultura collettiva italiana le condizioni di una vera e propria conflazione tra eroismo e martirio. Dalla storia (i martiri del Risorgimento o della Resistenza) alla cronaca recente (Falcone, Borsellino e le innumerevoli vittime della mafia) all’immaginario (il commissario Cattani, appunto), l’eroe italiano per antonomasia è un personaggio vocato e votato al sacrificio della vita, che egli perde nella lotta generosa ma impari contro un nemico strapotente perché doppio.

Vi fa venire in mente qualcos’altro? Anche se l’autrice non lo dice, a me sembra che caratteristiche simili si possano ritrovare in moltissime produzioni italiane, e almeno nelle due piattaforme multimediali di maggior impatto degli ultimi anni: Romanzo criminale e Gomorra. E questo perché probabilmente gli ingredienti che contraddistinguono in Italia le narrazioni di successo sono all’incirca sempre gli stessi. In particolare, le storie criminali (soprattutto quelle sulle grandi organizzazioni) contengono la speciale e ambigua miscela di drammatizzazione e impegno civile, martirio e fascinazione per il male, ed è proprio questa miscela a farle funzionare presso il pubblico.

La mia tendenziosa interpretazione psicoanalitica è che le epopee criminali a sfondo sociale insieme agli altri due generi di grande successo di cui parla il libro, lo storico e il biblico/religioso, nascano da una forma di sfiducia di soggettisti e sceneggiatori italiani per la creazione pura. Come se lavorassero afflitti dal terribile presentimento che qualsiasi soggetto di pura immaginazione ambientato nel presente finirebbe confinato nella più ridicola improbabilità, riscrivono storie già scritte o ne inventano di nuove solo se riescono a inserirle in un contesto drammatico in cui i riferimenti alla cosiddetta realtà puntellano la loro traballante fiducia nella finzione. E del resto basta dare un’occhiata a qualsiasi serie italiana di fantasia e confrontarla con il più apparentemente improbabile corrispettivo americano – uno a caso: Breaking Bad – per essere investiti da una sgradevole sensazione di imbarazzo per chi ha scritto, prodotto, diretto la serie italiana di fantasia presa in esame.

Il punto è che, non da oggi, il discorso intorno alla qualità della televisione italiana finisce sempre per essere ridotto al problema dell’uovo e della gallina. Uno sceneggiatore, o un produttore a caso, interrogato sul tema, mi risponderebbe sicuramente che le ragioni delle loro scelte produttive nascono dal gusto del pubblico, che chiede certe storie e si appassiona a quelle. E però in una prospettiva ribaltata, gli ingredienti di successo, in aggiunta a qualche dato storico (i 19 sceneggiati tratti da opere straniere su 26 prodotti dal 1954 al 1960 dicono dell’apertura di cui parla la Buonanno, tuttavia non possono non dire anche di una certa povertà della tradizione), potrebbero al contrario dimostrare che la nostra produzione televisiva sia condizionata da una incapacità creativa innata, un’insicurezza che inibisce qualsiasi mitizzazione del presente, a meno che non si tratti di sollevare il tappeto per scoprire la sporcizia nascosta, o di ri-santificare le vite dei santi, o di semplificare il rito della memoria in una partita tra buoni e cattivi.

Ma questa, appunto, è solo speculazione tendenziosa. Il libro della Buonanno, invece, si fa apprezzare per essere uno spaccato della nostra storia culturale disseminato di segni rivelatori, senza opinioni preconcette e a debita e saggia distanza dalle pericolose dispute sulla qualità.

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