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Migliaia di spie nordcoreane hanno tentato di farsi assumere da Amazon usando falsi profili LinkedIn 1800 candidature molto sospette che Amazon ha respinto. L'obiettivo era farsi pagare da un'azienda americana per finanziare il regime nordcoreano.
È morto Vince Zampella, l’uomo che con Call of Duty ha contribuito a fare dei videogiochi un’industria multimiliardaria Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
A Londra è comparsa una nuova opera di Banksy che parla di crisi abitativa e giovani senzatetto In realtà le opere sono due, quasi identiche, ma solo una è stata già rivendicata dall'artista con un post su Instagram.
Gli scatti d’ira di Nick Reiner erano stati raccontati già 20 anni fa in un manuale di yoga scritto dall’istruttrice personale d Rob e Michele Reiner Si intitola A Chair in the Air e racconta episodi di violenza realmente accaduti nella casa dei Reiner quando Nick era un bambino.
Il neo inviato speciale per la Groenlandia scelto da Trump ha detto apertamente che gli Usa vogliono annetterla al loro territorio Jeff Landry non ha perso tempo, ma nemmeno Danimarca e Groenlandia ci hanno messo molto a ribadire che di annessioni non si parla nemmeno.
Erika Kirk ha detto che alle elezioni del 2028 sosterrà J.D. Vance, anche se Vance non ha ancora nemmeno annunciato la sua candidatura «Faremo in modo che J.D. Vance, il caro amico di mio marito, ottenga la più clamorosa delle vittorie», ha detto.
A causa della crescita dell’industria del benessere, l’incenso sta diventando un bene sempre più raro e costoso La domanda è troppa e gli alberi che producono la resina da incenso non bastano. Di questo passo, tra 20 anni la produzione mondiale si dimezzerà.
È appena uscito il primo trailer di The Odyssey di Nolan ed è già iniziato il litigio sulla fedeltà all’Odissea di Omero Il film uscirà il 16 luglio 2026, fino a quel giorno, siamo sicuri, il litigio sulle libertà creative che Nolan si è preso continueranno.

Elogio della trama

«Il cinema è meglio della TV», «la storia non importa». Siamo sicuri che rinunciare alla trama non sia una scorciatoia?

30 Gennaio 2013

Premessa. L’idea, in origine, era scrivere qualcosa su quelli che “le serie americane non mi dicono proprio niente.” Poi ci ho pensato un po’ su, ho provato a chiedermi cosa ci potesse essere sotto e ad azzardare qualche conclusione. Questo è il risultato.

Il fattaccio. Qualche giorno fa mi sono ritrovata invischiata nell’uber-trito discorso “cinema vs televisione.” A mia discolpa, era notte, eravamo tutti un po’ sfatti e qualcuno aveva pure alzato il gomito. La scena è ambientata nel salotto di casa mia. Uno degli ospiti, maschio-bianco-etero-trentenne-con-titolo-di-studio, dice di non avere mai seguito una serie in tutta la sua vita e di andarne fiero. Perché, sostiene lui, “anche la serie fatta meglio non potrà mai competere con un film.”

Ora, quelli che “vanno fieri” di non avere mai fatto/letto/visto qualcosa meriterebbero un discorso a parte. Per esempio, io non ho mai letto un Harmony (Harold Robbins non conta, credo, perché se ti rivolgi a un pubblico maschile e hai qualche pretesa thriller-politica non sei un vero Harmony) e non ne avverto tutta questa necessità (Harold Robbins: pessima idea) ma non per questo ne vado particolarmente fiera. Ok, stiamo divagando.

Chiedo al mio ospite perché, secondo lui, la tv non può mai competere con il cinema. Lui risponde: perché un film non ha bisogno della trama, e cita The Tree of Life.

Ha ragione, mi dico. Non sulla superiorità intrinseca del cinema, quanto sul fattore trama. Fare un film bello e senza trama si può, ma provate voi a fare una serie televisiva senza trama: o vi salta fuori un collage di episodi auto-conclusivi al limite del tollerabile, tipo i polizieschi che vanno in prima serata su Fox Crime, oppure fate una sit-com. Ce ne sono di meravigliose, certo: Curb Your EnthusiasmArrested Development, per citarne due semi-recenti, ma anche vecchi classici come SeinfeldFawlty Towers. Però, appunto, le chiamiamo “sit-com,” e non “serie”. Quelle, le serie vere, come Big Love, Mad Men o i Soprano (seppure – e mentre lo scrivo mi rendo conto di rischiare il pubblico ludibrio – anche la sfigatina Battlestar Galactica a tratti ha una sua dignità letteraria) traggono la loro forza principale dall’arco narrativo.

È vero, fare un film senza trama – o dove la trama conta relativamente poco – si può, anche con risultati eccellenti. Ma non è detto che sia la scelta, beh, più sofisticata.

Il mio ospite sosteneva, o così mi è parso, che costruire una trama è facile, roba che sono capaci tutti, roba “da TV”, in contrapposizione con il cinema, che invece “è arte”.

A volte non mi chiedo se non sia il contrario. Se rappresentare una qualche forma di esperienza umana, senza passare per quel processo di narrativizzazione che, se non vado errando, è alla base della coscienza adulta, non sia una scorciatoia un po’ troppo facile.

Proprio di The Tree of Life scriveva, tra le altre cose, Mariarosa Mancuso in un dispaccio pubblicato sul n.11 di Studio. L’autrice, che più in generale se la prendeva con Terrence Malick a ridosso dell’uscita di To The Wonder (che io non ho visto), faceva un confronto tra The Tree of Life e quello che, a mio personalissimo parere, è il più riuscito (e completo) tra i film dei fratelli Coen, A Serious Man: entrambi sono «una variazione sul Libro di Giobbe». La differenza, scriveva Mancuso, era che «A Serious Man schiva tutte le trappole. Dio non si manifesta nei raggi del sole che al tramonto penetrano tra le foglie del grande albero, ma nel calco di una dentatura, o nella formazione dei Jefferson Airplane». La tesi, insomma, era che la differenza tra un film riuscito e un film non riuscito (a giudizio dell’autrice), sta nel ricorso alla mistica. Che, sempre a giudizio dell’autrice, sul grande schermo non funziona.

Ora, io di mestiere non faccio il critico cinematografico e, forse anche per questo, The Tree of Life mi era pure piaciuto. Sto ragionando di cose non mie. Ma quel confronto tra il film di Malick e quello dei fratelli Coen mi aveva colpito molto. Perché, in soldoni, anche io al tempo avevo avuto la netta sensazione che i due parlassero della stessa cosa. Il crollo dei punti di riferimento (When the truth is found to be lies….), l’evaporazione del padre, il desiderio di essere amati e la consapevolezza che, anche se c’è, l’amore non basta a sostituire le certezze perdute – insomma, l’ingresso nella dimensione post-moderna.

Solo che Malick risolveva la questione della forza (il padre) che crolla e ti si rivolta contro, e dell’amore (la madre) che crolla sotto il crollo, che cede – risolve tutto questo, si diceva, parlando proprio di forza e di amore, «la via della natura, e la via della grazia». I fratelli Coen invece ricostruiscono l’implosione di una piccola comunità ebraica del Minnesota, mettendo in scena un padre di famiglia, un tempo rispettato e ora calpestato-frustrato-derubato, completamente in balìa degli eventi (inclusi quelli atmosferici), che cerca invano il consiglio di un rabbino e viene puntualmente rimbalzato, mentre il figlio comincia a farsi le canne. Alla fine, il più ieratico dei rabbini riceve non il padre di famiglia in disperato bisogno di una guida, bensì il pre-adolescente strafatto. E che gli dice? When the truth is found to be lies/ And all the joy within you dies/ Don’t you want somebody to love. Anche questa è mistica, solo che dietro c’è un processo di fiction, un arco narrativo – insomma una trama che regge le immagini, e non viceversa – che fa di A Serious Man non tanto un film più riuscito di The Tree of Life, quanto un film più completo.

L’esperienza umana passa prima di tutto da una costruzione di trama. La memoria, così come l’intendiamo comunemente, è una memoria narrativa. È ciò che, per dire, separa la vita prima e dopo i tre anni di età. Quasi nessuno di noi ha ricordi che risalgono a prima dei tre anni, seppure i bambini piccoli siano capaci di ricordare “cose” – un suono, un colore, l’odore del latte materno. Ma questi “ricordi” restano dei flash privi di una coerenza narrativa, perché risalgono a una fase in cui non è ancora formata la coscienza di sé, e dunque dell’altro, del non-qui e non-ora.

Carly Simon, la cantautrice americana che fu la moglie di James Taylor, idealizzava l’infanzia come l’età in cui le cose avevano un nome. Invece, temo, dare un nome e una forma alle cose, trasformare gli eventi in trama, è una conquista. Rinunciarvi sarebbe un gran peccato.

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