Foto di Alessandro Furchino Capria

Cultura | Dal numero

Il cinema diverso di Yuri Ancarani

Da anni in bilico tra arte e film, ha portato alla Mostra del Cinema di Venezia Atlantide, che debutta nelle sale il 22 novembre, un racconto di giovani della laguna che truccano barche e ascoltano musica trap.

di Davide Giannella

Incontro Yuri Ancarani al suo ritorno da Venezia, dove pochi giorni fa ha presentato Atlantide, il suo ultimo film incentrato su un gruppo di ragazzi della laguna che truccano le loro barche, alla 78esima edizione della Mostra del Cinema, chiusasi da poche ore. La stessa kermesse che circa dieci anni fa (era il 2010 ma non serve scomodare il senso della storia per capire che le date non sono sempre fondamentali soprattutto con una pandemia globale di mezzo) vedeva l’inizio della sua esperienza nel mondo del cinema ufficiale. Un ingresso in scena senza dubbio felice e dagli ottimi riscontri che gli ha poi permesso nel tempo di diventare uno degli artisti e registi italiani più riconosciuti anche in ambito internazionale, con esperienze all’Hamme Museum di Los Angeles o a diverse Biennali d’arte (anche quella di Venezia nel 2013) e la partecipazione ai più importanti festival cinematografici mondiali. Con una caratteristica di fondo che lo ha accompagnato in ogni suo lavoro, ovvero il fatto di non essere mai esattamente collocabile come autore, sospeso tra il sistema dell’arte e quello del cinema, alla ricerca costante di situazioni e storie problematiche sul piano umano e sociale, di realtà da interpretare ed estetizzare per poi condividerle con il pubblico.

ⓢ Come è stata questa ultima esperienza veneziana? La sensazione, soprattutto dopo aver visto Atlantide, è per molti aspetti quella di aver assistito alla chiusura di un tuo percorso. Sei d’accordo con questa visione? 
È stato emozionante come sempre, questa volta forse ancora di più considerato che è un’esperienza legata alla città e non solo al Festival, durata almeno quattro anni. Sono felice di aver dato spazio e visibilità a chi Venezia e la laguna la vive quotidianamente, raccontando un universo del tutto inedito rispetto alla percezione comune di quei luoghi. Potrei poi dirti che in effetti un cerchio si è chiuso, perché senza dubbio Atlantide ha segnato un punto importante, anzi fondamentale per me. Però, guardando proprio a questi dieci anni, sia in termini professionali che personali, credo che forse andrebbe ribaltata la prospettiva. Mi spiego, il film da vedere per primo dovrebbe essere Atlantide, per ultimo invece dovrebbe essere visto Il Capo. Da artista spesso non si sa esattamente cosa si sta facendo. Ci sono enormi quantità di variabili produttive e una necessità di affinamento delle proprie idee che molto spesso possono arrivare – se arrivano – solo con l’esperienza o a posteriori. Però una certa capacità di sintesi e una certa efficacia del gesto artistico, quando si è agli inizi, può mantenere una forza incredibile anche nel tempo e forse proprio per questo andrebbe visto tutto a ritroso, quando a seguito dello studio di un certo autore, si arriva a coglierne anche gli aspetti più sintetici e in un certo senso meno maturi. Ecco, in generale siamo portati a considerare la maturità, l’età adulta, come a un valore intoccabile, fondante della nostra stessa società. Forse anche in questo senso potremmo cercare di affinare maggiormente il nostro sguardo e rivedere certe scale valoriali. L’adolescenza – sia in termini anagrafici che intesa come fase professionale – con i suoi riti di passaggio e la sua devastante tensione al superamento del limite, andrebbe considerata con minore sufficienza dal mondo ’’adulto’’.

Foto di Alessandro Furchino Capria

ⓢ In mezzo cosa c’è stato, cosa ricordi?
Molto lavoro, ma soprattutto la possibilità di indagare delle questioni che mi stavano a cuore attraverso l’opera. Sono cresciuto con mia madre e mia nonna, in un contesto totalmente attento a me e alle mie attitudini. Il contatto con il mondo esterno, regolato secondo parametri soprattutto maschili, è stato traumatico per me. Ha sollevato delle fragilità e di lì si è generato il mio interesse per l’arte. Per me il lavoro ha rappresentato la chiave per analizzare, comprendere e tradurre quello che mi era o mi è tuttora oscuro. A ben vedere, sia il ciclo di trilogie (La trilogia del ferro e Le origini della violenza) così come il Ciclo delle Lezioni che non ho ancora concluso, perché non si smette mai di andare a lezione, partono tutti dalla mia esigenza di comprendere il reale. Sono sempre situazioni estreme che in una qualche maniera, attraverso un’indagine da vicino e molte ore di osservazione e riprese, cerco di formalizzare in ottica artistica e quindi anche più accattivante, per rendere estendibili anche ad altri i miei quesiti sul mondo. Storie ordinarie che possono diventare esempio per la collettività o almeno insinuare dei dubbi attraverso la fascinazione artistica. 

ⓢ  Tutti i personaggi dei tuoi progetti non sono attori professionisti, bensì persone più o meno comuni nello svolgimento delle loro attività quotidiane. Come è cambiato il rapporto delle persone coinvolte in questi anni con te e con la realtà di un set? 
Credo che la chiave di tutto stia nell’empatia che riesco a generare di volta in volta nei diversi contesti e con chi li abita, come nei tempi, di solito molto lunghi, che investo per inserirmi in quegli stessi ambiti. Penso che sia fondamentale porsi sempre con enorme curiosità e rispetto, che si tratti di ambienti operai, di principi nel Golfo Persico o di adolescenti in laguna. Non trattandosi di attori professionisti è senza dubbio fondamentale farli sentire a proprio agio, evitare di far pesare la propria presenza e soprattutto evitare di farli sentire eccessivamente sotto osservazione. Per questo cerco anche di muovermi con attrezzature leggere e con una troupe non troppo ampia. Poi qualche differenza nella maniera di porsi da parte degli attori, soprattutto negli ultimi anni, l’ho riscontrata. Diciamo che è sempre più diffusa da parte delle persone una certa consapevolezza del mezzo cinematografico, o meglio, una pretesa di consapevolezza legata probabilmente a una diversa percezione della propria immagine personale e della rappresentazione di sé legata anche all’enorme flusso di immagini e narrazioni personali generata dai social network negli ultimi anni. In questo senso c’è senza dubbio differenza tra i cavatori di marmo conosciuti sul set de Il Capo e i ragazzi del cast di Atlantide. Invece le difficoltà vissute da parte mia nell’inserirmi all’interno di mondi a me sconosciuti sono sempre le medesime, anzi per assurdo relazionarsi a un gruppo di adolescenti è stato ancora più complicato. Farsi accettare e stabilire un patto di fiducia reciproca intergenerazionale è stata forse la prova più ardua. Loro erano coinvolti in continue prove esistenziali e fisiche per entrare nella così detta età adulta mentre io cercavo, soprattutto attraverso la musica che ascoltano, di trovare dei ponti di comunicazione. 

Foto di Alessandro Furchino Capria

 Nei tuoi vari film hai trovato delle differenze sostanziali nel generare questa empatia, considerando appunto i differenti contesti con cui ti sei misurato? 
Le differenze ci sono sempre ovviamente, di carattere sociale come di carattere umano. Ogni volta si tratta di comunità più o meno estese con codici profondamente radicati. Più che le differenze però, credo di essere stato colpito dalle continuità di fondo tra i differenti ambienti. Al di là di un’estetica attraverso la quale cerco sempre di nobilitare il contesto che sto descrivendo, mi trovo sempre in situazioni che reputo difficili e per molti versi brutte. Brutte perché in ognuna di queste ritrovo dei principi che, ahimè, caratterizzano ancora la società globale. Parlo del desiderio di essere vincenti a tutti i costi, o almeno di dimostrarsi come tali. Parlò di un’aggressività, a volte più esplicita, altre più latente, che permane ogni aspetto della vita e regola tutte le relazioni. La cosa impressionante è che proprio ora stiamo considerando un lasso di tempo, dieci anni, dove non ho visto reali cambiamenti rispetto a questi punti. Ci sono stati forse in superficie, ma non nel profondo. Le nostre azioni, tristemente, sono ancora stimolate dai medesimi senti- menti di prevaricazione e dagli stessi rapporti di potere tra esseri umani. Davvero, che si tratti del sistema carcerario descritto in San Vittore, di quello dello stadio in San Siro o di rituali ancestrali in Whipping Zombie. 

ⓢ Cosa pensi che ti abbiano lasciato quindi questi ultimi dieci anni e cosa pensi di aver restituito tu al panorama artistico odierno e al pubblico? 
Non è semplice per me fare questo tipo di analisi. Come ti accennavo all’inizio, ho una percezione probabilmente poco lineare del tempo, anche quando mi rendo conto di chiudere dei capitoli o delle fasi. Senza dubbio penso di essere stato molto fortunato nel poter fare un’indagine di ciò che mi interessava nel profondo grazie al lavoro e di aver anche imparato molto di più di me stesso. Poi sono felice di come sono riuscite ad avvicinare sistemi complessi come l’arte e il cinema anche persone che mediamente non ne avrebbero mai provato reale interesse, a cominciare da quelle coinvolte nei miei film, tutti individui a cui devo molto e che sono felice di aver portato sempre in sala con me. Un’altra cosa divertente (ride) è che mi sono abituato alla sconfitta. Non ho ancora vinto un premio a Venezia nonostante le diverse partecipazioni e gli ottimi riscontri di pubblico. Davvero però posso considerarmi un perdente felice, anche perché sostenuto e circondato da una squadra di persone che credono nel mio lavoro e che fanno di tutto per promuoverlo e sostenerlo oltre ogni ostacolo. Se penso invece a cosa ho potuto lasciare o restituire io, credo molti segni da interpretare, molte letture ancora possibili del mio lavoro. Probabilmente anche molta incomprensione, ma sono cose a cui ci si abitua presto e che, anzi, permettono alle opere di continuare a respirare. Ora mi aspetta la promozione di Atlantide che durerà almeno un anno e toccherà diversi Paesi tra cui il Messico, gli Stati Uniti, la Spagna e l’India. È una cosa meravigliosa per me perché potrò godermi le reazioni di pubblici che, molto differenti tra loro, è probabile possano svelare anche a me aspetti del film che ancora non avevo colto. È come far interpretare da altri i propri sogni. Magari non ti ritrovi del tutto in quella lettura però sono sempre strumenti utili per rivedersi e per generarne di nuovi. Ecco questo mi interessa davvero e credo sia importante per il futuro. Il sogno.