Cultura | Cinema

Woody Allen in purezza

Nell’autobiografia uscita in anteprima in ebook in Italia, il regista di New York ripercorre la sua vita attraverso amori e guerre, ricordi, e tanti titoli di film.

di Alessandro Beretta

Woody Allen, A proposito di niente, edito in Italia da La Nave di Teseo e disponibile nella versione cartacea dal 9 aprile

Di film, donne, incontri, simpatie e antipatie, come un fiume in piena che scorre dalle origini a oggi, l’autobiografia di Woody Allen è il racconto di una vita di chi, a suo giudizio, ha commesso «tanti stupidi errori compensati dalla fortuna». Una frase che potrebbe definire la vita di tanti everyman, certo fortunati, ma è la sua, quella di uno dei registi, autori e attori – anzi, corpi comici – più amati del secondo Novecento. L’uscita per La Nave di Teseo di A proposito di niente di Woody Allen (disponibile in cartaceo dal 9 aprile), pubblicato ieri in Italia in anteprima mondiale in ebook e già alto nelle classifiche, è una bella sorpresa resa possibile dall’editore Elisabetta Sgarbi che, nonostante il momento difficile, ha deciso di anticiparne l’uscita offrendo ai lettori italiani l’occasione unica per immergersi nel mondo alleniano. Un mondo, questo, che consigliamo di ripercorrere tenendo di fianco la sua filmografia, perché Allen tocca tutti i suoi film, e l’istinto a ogni titolo è quello di fermare la lettura e schiacciare “play” per vedere/rivedere risate e drammi.  Senza dimenticare una premessa fondamentale: Allen non è interessato a nessun culto del suo cinema e lo ribadisce, come già accaduto in varie interviste, a più riprese nel libro.

Paradossalmente, parte del suo fascino nasce proprio da qui: le letture di critica e pubblico, le domande che ci fa porre, non gli interessano. In questo è molto schietto e la sensazione è di avere a che fare con un artista puro, molto meno costruito nei suoi ragionamenti poetici e comici di quanto si creda. A parte questo, Allen, oggi 84enne inizia dal principio, dalla famiglia: «Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield, anche se in questo caso i miei genitori magari possono essere un soggetto più interessante del sottoscritto». Gli anni dell’infanzia a Brooklyn e dell’adolescenza hanno un ritmo comico notevole, tra una madre fin troppo presente che «assomigliava a Groucho Marx» e un padre broker di gioielli, infedele e con la passione per le scommesse sul basket (per inciso, un modello di padre ebreo newyorkese ricorrente nel mondo del cinema, basti vedere il recente e in parte autobiografico Diamanti grezzi di Josh e Benny Safdie). La parabola ascendente, il percorso tra scrittura, fin dai sedici anni, e locali di cabaret in cui incontrava idoli e maestri, è la parte meno nota e forse più affascinante dell’insieme, sia perché gli anni della formazione sono narrativamente spesso i più movimentati, ma anche perché ci raccontano un mondo poco noto.

I punti fermi della ricerca di un’identità, posti con ironia nelle prime pagine, mentre Allen divora fumetti sono: la domanda su come far colpo sulle ragazze, il rendersi conto di saper far ridere, amare sempre più l’illusione della realtà, e il fatto che non sia sempre interessante andare a scuola. Quest’ultima convinzione, fortunatamente, lo farà entrare al cinema in pianta stabile da spettatore e di lì inizierà a sognare, per arrivare da Brooklyn a un attico a Manhattan, come gli attori che vede sul grande schermo. Un sogno che avranno avuto in tanti e che ad Allen è riuscito di realizzare. Parlando di sé Woody si dà spesso del paranoico, nevrotico, misantropo, ribadendo di non avere mai avuto traumi, ma da certa sua sfiducia di default nell’umanità è nata anche tanta comicità. Giudicando quanto ha vissuto scrive: «Alcuni vedono il bicchiere mezzo vuoto, altri lo vedono mezzo pieno. Io ho sempre visto la bara mezza piena». L’altra parte da riempire è però fatta dai film e dai suoi amori che Allen approfondisce in modi differenti: il più folle è il secondo matrimonio con Louise Lasser, tra gli anni Sessanta e Settanta, tra bipolarità di lei e tradimenti, mentre il più difficile è, ovviamente, la lunga relazione con Mia Farrow.

Benché scriva, delle tante accuse che gli hanno rivolto, che: «Spero non sia questo il motivo per cui avete comprato il libro», l’autore le ripercorre una ad una, con rigore processuale, nella ideale terza parte dell’autobiografia. Chiudendo con una stoccata a Mia Farrow: «Se faccio un passo indietro, devo dire che è stato molto divertente vedere tutta quella gente scalmanarsi per aiutare una squilibrata a realizzare la sua vendetta. Non sarebbe una cattiva idea farne una satira». Certo, per chi ama il confine tra gossip e giustizia, è necessario, ma per chi ama il cinema come arte, si perde un po’ di verve, anche se sono queste le pagine che hanno fatto saltare l’accordo con il primo editore americano previsto per il libro, il ben noto Hachette per cui è autore anche Ronan Farrow, figlio di Mia e firma delle inchieste che hanno fatto nascere il movimento #MeToo.

Innegabilmente, il movimento e le accuse di violenza al padre da parte della figlia Dylan Farrow hanno distrutto, almeno in America, la figura di Allen, e l’hanno messa in discussione nel mondo, rendendo inedito in territorio americano il suo ultimo film A rainy day in New York, prodotto e abbandonato da Amazon, con diversi strascichi legali. Allen ne è conscio, dispiaciuto e talvolta arrabbiato, soprattutto quando a prendere pubblicamente posizione contro di lui sono persone dello star system che non conoscono il caso: «Per quello che ne sapevano, io avrei potuto essere Alfred Dreyfus o un serial killer. Non sarebbero stati in grado di capire la differenza». Allen è colpito e travolto da certa superficialità mediatica e sa di non essere scomparso, come ai tempi del «maccartismo» che cancellava da Hollywood chi era sospettato di essere comunista, grazie alla sua lunga carriera e alla giustizia che gli ha dato ragione. A questo, aggiungeremo, perché in Europa abbiamo sempre continuato ad amarlo.

Tolte le passioni, e il racconto della felicità raggiunta con Soon-Yi, rimangono la musica jazz e il clarinetto, il riconoscimento a due maestri – Tennessee Williams nella scrittura, Ingmar Bergman nel cinema – e gli sparsi e rari, ma da incorniciare, momenti in cui dà consigli di scrittura e cinema. A ben leggere, è uno il progetto ricorrente fin dai tempi di Prendi i soldi e scappa (1969), quello di girare una commedia con lo stile di un documentario. Ci riuscirà tempo dopo, con Zelig (1983), l’unica pellicola di cui spiega il tema: «Parlava di come tutti noi vogliamo essere accettati, conformarci, non offendere gli altri; di come spesso offriamo una diversa immagine di noi a diverse persone, sapendo quale può risultare più gradita. Se per esempio parla con qualcuno che ama Moby Dick, il protagonista di Zelig si sforza di trovare argomenti per lodarlo. Con qualcuno che odia il libro, il mio personaggio si adegua e lo fa a pezzi. Alla fine questa ossessione per il conformismo porta al fascismo».

Woody Allen, di certo, non è stato mai conformista, dal non presentarsi agli Oscar al non leggere quasi nulla di quanto lo riguarda. Fedele alla sua linea che ha fatto appassionare tanti spettatori e già, con una certa sorte, fin da quando Allan Stewart Königsberg decise di chiamarsi “Woody Allen”, una parte del suo cognome storpiato e quel Woody che scelse «per nessun motivo. O meglio, era breve, stava bene con Allen, e aveva un’aria vagamente comica». Quell’aria è poi diventata realtà, anzi arte: splendida illusione.