Si intitola La terra del dolce domani e in Italia l'ha pubblicata Feltrinelli.
Secondo la leggenda, che si tramanda come da tradizione per via orale nei panel delle fiere fumettistiche, l’etichetta Vertigo, destinata a sconvolgere il panorama fumettistico statunitense scrollandogli di dosso un perbenismo imposto e ormai decisamente fuori tempo, nasce in un momento imprecisato tra il 1992 e il 1993, in una riunione tra alcuni vertici di DC Comics e Karen Berger, figura chiave e allora editor di alcune testate che si collocavano ai margini del colorato universo di supereroi in tutine colorate della casa editrice statunitense. Swamp Thing, che nelle mani di Alan Moore è ormai un trattato filosofico per immagini sull’uomo e la natura, e The Sandman di Neil Gaiman, che ritorna a Platone nel suo dialogo tra sogno e realtà, sono solo due esempi della direzione in cui si muove quella parte di universo narrativo patrocinato da Berger.
La benedizione delle alte sfere consente dunque a Berger di raccogliere personaggi e talenti che si muovono sotto la sua supervisione all’interno di una nuova etichetta, formalmente slegata dalle vicende di Superman e soci, per concedere loro una maggiore libertà editoriale. Il nome scelto è di per sé un manifesto programmatico: Vertigo, ovvero vertigine. Non è un caso, ovviamente: nelle intenzioni di Berger, le storie pubblicate sotto la benedizione di quel logo avrebbero fatto girare la testa ai lettori americani mettendoli di fronte a una nuova concezione del fumetto, più maturo e radicato nel presente.
Il primo albo a sfoggiare in copertina il logo Vertigo arriva sugli scaffali a gennaio 1993 e tutto è studiato per trasmettere l’idea di uno smottamento. Si tratta di Death: The High Cost of Living, spin-off inedito della serie The Sandman scritto dall’autore della saga, quel Neil Gaiman di cui nei decenni successivi si parlerà a lungo e motivi disparati. Eppure la storia dell’etichetta Vertigo, fenice risorta dalle proprie ceneri in questo 2025 con una serie di nuove testate svelate nei giorni scorsi durante il Comic Con di New York, parte da molto, molto più lontano. La riprova è l’elenco delle pubblicazioni di quei primi mesi del 1993 che include per buona parte (The Sandman #47, Swamp Thing #129, etc.) testate già pubblicate fino a qualche settimana sotto l’egida DC Comics e che continuano, con un look diverso. La Vertigo di Berger, insomma, applica un’etichetta (metaforicamente e non) a una rivoluzione culturale che è già in atto da tempo e le cui origini vanno ricercate in un punto ben preciso della storia: l’anno leggendario per il fumetto a stelle e strisce, il 1986.
Il miglior anno nella storia del fumetto americano
Il 1986 non è un anno scelto a caso, ma è quello che viene considerata la migliore annata di sempre del fumetto statunitense, dodici mesi graziati dall’arrivo sugli scaffali delle fumetterie (anch’esse da poco apparse a mutare il panorama) quasi in contemporanea di tre capisaldi del medium: The Dark Knight Returns di Frank Miller, Watchmen di Alan Moore & Dave Gibbons e infine Maus di Art Spiegelman. Citando il celebre adagio di Lenin: “Ci sono decenni in cui non accade nulla, e settimane in cui accadono decenni”. Per quanto il buon Vladimir Il’ič Ul’janov parlasse di rivoluzioni e non di fumetti, la sua sintesi descrive bene l’impatto avuto da quella singola annata sull’intera industria. Ovviamente, quando in una settimana accadono decenni è perché una serie di movimenti, tendenze e influenze culturali si trovano di colpo a convergere verso un medesimo istante nel tempo. Nel caso del ‘86, le radici della rivoluzione a fumetti affondano in un terreno reso fertile dalla nascita delle fumetterie, dall’emersione delle produzioni underground, dall’inizio del tramonto di quel ottimismo yuppi che aveva infettato l’intero decennio e da quella che è stata in seguito definita la British Invasion, ovvero l’arrivo negli USA di una serie di fumettisti britannici che si erano fatti le ossa su testate locali (e piuttosto punk, visto il periodo) come A.D. 2000, convocati oltre oceano per trovare posto nei gangli creativi delle due major.
Per capire perchè una manciata di capelloni, anarchici e stregoni abbia stravolto il modo in cui negli Usa si raccontavano le storie a fumetti, però, bisogna fare un salto ancora più indietro, fino al secondo Dopoguerra e alle teorie di Frederic Wertham, psichiatra per cui Hitler era da considerarsi un dilettante in confronto ai fumettisti. Le campagne di Wertham, condotte a colpi di slogan e albi bruciati in piazza, conducono a un clima di caccia alle streghe in cui i fumetti vengono prima processati nelle aule di tribunale e poi imbrigliati da una rigida regolamentazione. Per arrivare sugli stand delle edicole, da allora e per alcuni decenni seguenti, tutti i fumetti dovranno rispettare le rigide regole della famigerata Comic’s Code Authority che includevano il divieto di rappresentare scene di sesso, di violenza eccessiva (qualunque cosa significhi nell’autoproclamata patria della democrazia) e e l’obbligo di raffigurare con rispetto forze dell’ordine e uomini di legge.
Così, mentre a New York ci si arrangiava tra vampiri non-morti e dinosauri mannari per aggirare le insulse regole imposte dall’Authority, sulle sponde del Tamigi si sperimentavano storie ultraviolente di futuribili poliziotti fascisti e si rinverdivano filoni popolari come la sci-fi e l’horror, azzoppati in USA dai paletti da rispettare. Il 1986 dunque segna la manifestazione esplicita e concreta dell’impulso vero la maturazione del fumetto statunitense, un grido di ribellione alimentato da una flotta di autori britannici (oltre al già citato apripista Alan Moore, vale la pena fare i nomi di Peter Milligan e soprattutto Grant Morrison) ispirata dal romanzo Superfolks, pubblicato nel 1977, in cui Robert Mayer immaginava un equivalente di Superman, in crisi di mezza età, con una vita sessuale complicata e un mondo fuori dalla finestra alle prese col disarmo nucleare. I supereroi incontrano il mondo reale e nulla sarà più come prima.
British Invasion
Quello che nel 1993 Karen Berger riesce a individuare e irreggimentare all’interno di una linea editoriale, quindi, è un sentimento trasversale che scorre sotterraneo all’industria, alimentato dall’influsso britannico e già rielaborato da alcuni autori come Miller attraverso una lente politica autoctona. Poco importa se le direzioni siano opposte, se la ribellione anti-sistema di una generazione schiacciata dal conservatorismo della Thatcher conviva fianco a fianco con rigurgiti reazionari di un Miller spaventato dall’idea di uscire di casa tra le strade di New York (storia vera); a prescindere dalla direzione, tutte le istanza rispondono al bisogno del fumetto statunitense di essere preso finalmente sul serio, di ritagliarsi un spazio seppur piccolo nel discorso culturale da cui regole assurde lo hanno forzatamente escluso per decenni.
Attraverso l’etichetta Vertigo, studiata fin nel design del logo (verticale, in cui le lettere si sovrappongono per creare l’effetto della vertigine, appunto) per comunicare la novità, Berger ha saputo offrire un porto sicuro a una generazione in cerca di espressione: libertà creativa, ma anche economica, lasciando ai creatori i diritti sulle opere, proprio mentre i migliori talenti di casa Marvel abbandonavano la nave per fondare una propria casa editrice. Un’irripetibile congiuntura storica che ha consentito a Vertigo di sfornare in poco più di una decina d’anni serie entrate di forza nell’immaginario collettivo e che tuttora alimentano con la loro ispirazione l’industria dell’intrattenimento (oltre alle già citate, vale la pena riportare Y: The Last Man di BVaughan adattato di recente per lo streaming e The Invisibles, picco creativo di Morrison, pronto a giurare di essere poi stato derubato dell’idea dalle sorelle Wachowski col loro Matrix).
Il ritorno
Il ritorno del brand Vertigo, dunque, dovrebbe rappresentare una buona notizia nell’attuale panorama fumettistico statunitense, da tempo piuttosto piatto e sfruttato dalle due major per la produzione a basso costo di contenuti riadattabili poi altrove. E sulla carta lo è, riportando in casa DC un’etichetta per produzione scollegate dalle vicende di Superman e Creator Owned, proponendosi dunque in concorrenza con Image, divenuta ormai la terza forza del mercato sorretta dalle sue politiche verso gli autori. A leggere però gli annunci che arrivano dalla recente fiera newyorkese, viene difficile tuttavia aspettarsi lo stesso carico rivoluzionario della Vertigo originale. E grazie: siamo con tutta evidenza di fronte a un revival che prova a replicare anche nella formula il modello dell’originale (con la serie horror The Nice House by the Sea che passa da DC Comics a Vertigo in corso d’opera), ma a cui manca l’esplosivo innesto contro-culturale della prima volta, impossibile da replicare in laboratorio.
Scorrendo tra le nuove serie che partiranno dal 2026 si scorgono i nomi di autori apprezzati da critica e pubblico, interessanti mescolanze di genere e persino un sequel di 100 Bullets, terminata nel 2009, realizzato dagli stessi autori dell’epoca (BAzzarello ed Risso). Libero dal gioco della Comic’s Code Authority, il fumetto statunitense oggi si muove in equilibrio precario tra una fanbase oltranzista che mal tollera ogni minimo cambiamento, ma che compra ancora i fumetti abboccando a ogni copertina variant, e nuovi potenziali lettori verso cui Marvel e DC Comics provano a mostrarsi aperte al cambiamento e sensibili ai diritti delle minoranze, ma spesso con iniziative e trame di chiara originale aziendale, che quindi risultano goffe, forzate e indigeste al primo gruppo (che probabilmente poco comprende i fumetti che legge da sempre, ma quello è un altro discorso). Un pantano a cui servirebbe come l’aria una scossa in grado di rendere nuovamente il settore cool, ora che il cinema ha prima cancellato lo stigma sui supereroi per poi appropriarsi del loro immaginario. E continuando con le citazioni a tema: se la rivoluzione non è di certo un pranzo di gala, altrettanto di sicuro non è nemmeno due nuove serie a fumetti ad ambientazione zombie nel 2026.

Abbiamo incontrato la scrittrice per parlare di Terrestre, raccolta di racconti che ha definito come «il lato b di L’invincibile estate di Liliana», il libro con cui ha vinto il Pulitzer.