Un semplice incidente è la più grande sfida che Jafar Panahi ha mai lanciato al regime iraniano

Palma d'oro a Cannes, serissimo candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, nel suo nuovo film il regista immagina gli iraniani alle prese con l'inimmaginabile: quello che succederà dopo la fine della Repubblica islamica.

03 Novembre 2025

Un giorno, speriamo vicino, l’ayatollah cadrà e in quel giorno l’Iran sarà il Paese che Jafar Panahi racconta in Un semplice incidente, suo nuovo film, già Palma d’oro, probabile Oscar al Miglior film internazionale (per la Francia, però, visto che Les Films Pelléas lo ha co-prodotto), nelle sale italiane dal 6 novembre, distribuito da LuckyRed. Il regista l’ha detto, che questo è uno di quei film che si fanno quando i regimi finiscono e a chi è sopravvissuto spetta decidere cosa farsene di tutta quella rabbia, quel rancore, quella violenza. Con l’ironia allo stesso tempo sottile e sfacciata che lo contraddistingue (e che così tanto gli è costata), Panahi ha detto che questo è un film non sul presente ma sul futuro dell’Iran: quando sia i torturatori che i torturati torneranno a essere comuni cittadini, cosa faranno gli uni con gli altri? Gli uni agli altri?

«Finirà mai questa violenza?», chiede Panahi per bocca di Shiva (Mariam Afshari), una dei cinque protagonisti di questa storia violenta. Shiva era un’attivista, ha bruciato il velo nella pubblica piazza assieme alle altre donne che pretendevano vita e libertà, per questo è stata arrestata, imprigionata, umiliata, seviziata, torturata. Il suo incubo era Eghbal “Gamba di legno”, di mestiere torturatore, di vocazione martire: negli anni della prigione, appesantiva il passo fatto con la gamba di legno, così da far sapere a tutti i prigionieri che stava arrivando lui, l’eroe che aveva sacrificato un pezzo di sé nella “guerra santa” in Siria. Uscita dal carcere Shiva ha provato di nuovo a vivere, ha lavoricchiato come fotografa, ma un giorno Vahid (Vahid Mobasseri) le offre la vendetta: nel suo furgoncino l’uomo ha Gamba di legno, legato e stordito, capitato nell’officina nella quale lavora come meccanico dopo aver investito un cane e rotto la macchina (il semplice incidente del titolo, se interpretato letteralmente). O meglio, è convinto di avere lì Gamba di legno, ma c’è bisogno che Shiva gli confermi che si tratta proprio di lui: nessuno sa che faccia abbia l’aguzzino, i prigionieri avevano sempre la benda sugli occhi o la faccia al muro, chi ha le orecchie buone come Vahid si ricorda distintamente il cigolio della gamba di legno ma non basta un rumore per decidere che un uomo deve morire. Shiva ha il naso fino e ricorda il puzzo del sudore di Gamba di legno, ma nemmeno questo basta. E allora Shiva chiama Hamid (Mohamad Ali Elyasmehr) per sapere da lui quello che Vahid voleva sapere da lei: è questo l’uomo che deve morire? Hamid non ha dubbi, al tatto riconosce subito le cicatrici sulla gamba di Eghbal: gliela faceva sempre toccare così da fargli sapere che davanti a lui c’era un eroe di guerra. Hamid vuole uccidere Eghbal lì e ora, strangolarlo con le sue mani. Ma basta la certezza di un uomo per decidere che un altro uomo deve morire? Non è questo ciò che fanno i regimi, in fondo? Uccidere con certezza, per certezza.

Cinema sociale, non politico

Il cinema di Panahi è troppo realista per rispondere sì o no a questa domanda. La risposta che il regista dà è l’unica possibile, oltre che l’unica che possa diventare azione, l’unica praticabile. E la risposta è: dipende da quante persone riuscirai a convincere, tu che guardi e vivi in questo momento. Panahi ci tiene tanto a che sui suoi film siano apposte le etichette corrette: non politici ma sociali, dice sempre (tutto è cominciato con Ladri di biciclette, per lui, l’esempio di cinema sociale per eccellenza). Tutti i suoi film, e Un semplice incidente più di tutti, parlano non tanto alla società iraniana ma della società iraniana, di quello che di vero continua a esistere nonostante i soprusi e le menzogne del regime, al di là dei fraintendimenti e dei pregiudizi del racconto occidentale.

Fare film è guardarsi attorno e in questo momento attorno a sé Panahi vede questo: un Paese, il suo, che si prepara a scoprire se è vero quello che dicono, che un potere assoluto corrompe in modo assoluto, tanto chi ce lo esercita quanto chi lo subisce, oppressori e oppressi. Un Paese, l’Iran, che il regista si augura nel vicino futuro sarà nelle mani di persone come Shiva e come Vahid, di chi potrà e vorrà uccidere ma si fermerà a chiedersi se si deve solo perché si può. Un Paese che apparterrà a chi è stato schiacciato dalla ruota della violenza e sotto quel peso ha raggiunto l’illuminazione: non è chi la fa girare ma la ruota stessa, il problema. Un Paese le cui sorti dipenderanno da chi riuscirà a convincere più persone che la cosa giusta da fare non è sostituire il manovratore con un altro, ma distruggere la ruota.

Persino l’estetica di Panahi appare mutata dalla convinzione che la libertà si stia facendo possibilità concreta: da sempre maestro degli spazi stretti, degli ambienti chiusi impiegati come gabbie, in questo film Panahi si mostra anche “visivamente” speranzoso. I suoi personaggi sono sì “intrappolati” – tra pile di libri, in mezzo ad alberi affiancati, stretti tra le sbarre di un parapetto – ma si vede a occhio nudo che la gabbia inizia ad allargare le maglie, che lo spazio si dispiega piano piano attorno ai prigionieri. Fino alla scena nel deserto, in cui i protagonisti discutono la sorte del loro prigioniero e decidono la loro, giungendo per la prima volta nello spazio interiore che è l’autodeterminazione, sconfinato e impervio come quello che in quel momento li circonda.

Radunati attorno alla fossa che hanno scavato nel deserto per Eghbal, i protagonisti discutono su quel che è giusto fare, ucciderlo o liberarlo, una scena che ricorda i precedenti più eccellenti che la narrativa ha fornito a Panahi: i bambini di William Golding riuniti in consiglio sull’isola deserta del Signore delle mosche, i dodici uomini arrabbiati chiusi in camera di consiglio in La parola ai giurati di Sydney Lumet, tutti i conciliaboli in cui gli esseri umani si sono ritrovati a decidere della vita e della morte dei loro simili. Hamid vuole uccidere Eghbal e non capisce perché quelli che dovrebbero essere i suoi complici perdano tutto quel tempo in chiacchiere: «Sembra Aspettando Godot!», si lamenta. E gli altri provano a fargli capire che proprio quello è il punto: se davvero un uomo deve morire, almeno bisogna prendersi il tempo che serve a capire se merita di morire. Altrimenti, avrà ragione chi dice che un potere assoluto corrompe in modo assoluto.

Quel che resta del regime

Questo discorso, uno dei tanti discorsi presenti in questo film estremamente “ponderato”, persino per gli standard di un regista estremamente dialogico, rende Un semplice incidente un’opera beffarda, il più bel trucco del diavolo Panahi: «L’ho fatto per quello che verrà dopo la Repubblica islamica», ha spiegato. Consapevole di aver detto tutto quello che voleva dire del regime, il regista qui riesce nel massimo affronto, cioè mostrare cosa resterà dello stesso: un aguzzino chiuso in una cassa di legno che si fa la cacca addosso, un carceriere legato a un albero, la benda sugli occhi, la bocca contorta dall’urlo con cui chi vede la morte avvicinarsi implora il perdono, il buio attorno e la luce rossa dei fanali addosso, un interrogatorio che non finisce mai davvero.

Questa è la descrizione della scena-catarsi del film, uno dei picchi estetici raggiunti da Panahi nella sua ormai lunghissima e ricchissima carriera. La prova di un talento estetico, appunto, che troppo spesso è stato trascurato, oscurato dalla sfrontatezza politica e dagli intenti sociali. Ma pochissimi nella storia recente del cinema sono stati capaci di praticare in maniera così eccellente l’arte dell’arrangiarsi, di estrarre un’estetica dalle circostanze avverse, di evolversi per adattarsi e sopravvivere a un ambiente di volta in volta sempre più ostile. Nell’accezione di Panahi, tutto questo rientra sempre nella pratica del cinema sociale, in cui film sono espressione estetica, narrativa e anche produttiva dell’ambiente che raccontano, emanazione dello stesso. Un semplice incidente porta alle estreme conseguenze il suo guerrilla cinema, il suo cinema clandestino, radicalizzandolo ulteriormente perché stavolta Panahi fa un film indubbiamente narrativo, un’opera di finzione per quanto verosimigliante (con alcuni inserti al limite del fantastico, come l’abito da sposa indossato dalla Goli di Hadis Pakbaten per tutto il film, altri oltre il satirico, come i pos che i poliziotti usano per intascarsi le mazzette), quasi il contrario dei prodotti semi-documentaristici ai quali la “povertà” della messa in scena si prestava così bene.

Una semplice speranza

In Un semplice incidente Panahi riesce a fare tutte le cose che ama fare con i film, che poi sono le cose che il regime lo ha costretto a fare («Ho accettato che nel posto in cui vivo, tutto quello che fai ha un prezzo», ha detto). Raccontare storie vere, stavolta quelle che ha scoperto grazie ai compagni di cella nel famigerato carcere di Evin, quello in cui vengono rinchiusi gli oppositori politici, quello in cui è rimasto quasi otto mesi, dal luglio 2022 al febbraio 2023, per aver esercitato quello che considera il suo «diritto naturale di fare film». Lavorare con attori non professionisti o quasi, come i film del Neorealismo che sono stati la sua scuola dell’obbligo cinematografica. Usare quasi esclusivamente la luce naturale (e il buio, di conseguenza), perché è quella che illumina il mondo vero ma anche perché c’è meno possibilità di essere notati dalla polizia se si è in pochi, si viaggia leggeri e si fa in fretta. Per tutte queste ragioni, Un semplice incidente è l’apice del cinema di Panahi, e per un’ultima ragione potrebbe, in futuro, diventare anche il suo capolavoro. È il primo film in cui lui stesso si mostra convinto del fatto che non solo esiste già un Iran diverso e opposto al regime dentro a quest’ultimo, ma anche che quell’Iran diverso e opposto, presto o tardi, sostituirà l’altro e resterà l’unico, e che tutto dipende da quanto tempo ci metteranno gli iraniani a convincersi che è possibile e da quanti altri iraniani ognuno di loro riuscirà a convincere che il post Repubblica islamica è imminente. Jafar Panahi, con Un semplice incidente, il suo contributo l’ha dato.

Jafar Panahi, il regista clandestino

Con la Palma d’Oro a It was Just an Accident diventa il secondo regista, dopo Michelangelo Antonioni, a vincere tutti i grandi festival europei. Un traguardo incredibile, soprattutto per un uomo che da 30 anni sopravvive a censura, repressioni, incarcerazioni.

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