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Adesso c’è bisogno di libertà creativa in Turchia

Il caso emblematico del film Kurak Günler dimostra quanto negli ultimi anni si sia rafforzata la presa autoritaria di Erdogan sul Paese: ne abbiamo parlato con il giornalista turco di Middle East Eye Ragip Soylu.

di Francesco Del Vecchio

Il panorama si apre su un abisso. Dall’orlo, il giovane Emre contempla la portata della corruzione che affligge la piccola città turca dove è stato appena nominato procuratore: Yaniklar è un villaggio colpito dalla crisi idrica e il progetto di approvvigionamento dell’acqua proposto dal sindaco, in piena campagna elettorale, ha rivelato tutti i suoi difetti. Il terreno sta franando in alcuni punti, creando una sorta di meteorite nel paesaggio. Le giornate sono calde e l’abisso annuncia la catastrofe: è in questa ferita che affonderanno gradualmente tutti gli ideali politici e morali del protagonista. Questa scena è tratta da Kurak Günler (in inglese Burning Days), thriller diretto dal regista turco Emin Alper che ha ricevuto numerosi premi in festival nazionali e internazionali. Tuttavia, alla vigilia dell’uscita nelle sale turche, il ministero della Cultura di Ankara ha improvvisamente richiesto il rimborso delle sovvenzioni concesse per la stesura della sceneggiatura.

All’origine di questo gesto c’è stata la campagna alimentata dai media filogovernativi che hanno visto nel film di Alper uno strumento di “propaganda Lgbtq+”, accusando il regista di aver mentito sulle sue reali intenzioni. Kurak Günler è un ritratto della società turca su due livelli: da un lato c’è un giovane, laico e progressista, proveniente da un contesto urbano, mentre dall’altro ci sono uomini che rappresentano le reti locali di un potere autoritario, patriarcale e nazionalista. Il lungometraggio racconta in modo velato anche la relazione omoerotica tra il protagonista e il personaggio di Murat, un giornalista di lungo corso che indaga sulla corruzione del governo a Yaniklar. Secondo Alper, i problemi sono iniziati quando il suo film è stato nominato nella categoria Queer Palm al Festival di Cannes. Il titolo ha attirato l’attenzione dei media vicini al governo turco, il cui conservatorismo sta diventando sempre più evidente. Al potere dal 2003, il presidente Recep Tayyip Erdogan ormai ha etichettato la causa Lgbtq+ come un «movimento» che considera incompatibile con la costruzione di una «famiglia forte» e, di conseguenza, con una «nazione forte».

Il giorno successivo all’annuncio del ministero, il regista ha lanciato un appello sui suoi canali social incoraggiando il pubblico a recarsi in massa nei cinema per sostenere il film e contribuire a ripagare gli aiuti pubblici. L’iniziativa ha funzionato: andare a vedere Kurak Günler si è trasformato in un gesto di protesta; in tre giorni, il film ha venduto 51 mila biglietti in Turchia, cifra da record. L’attacco contro Alper simboleggia il clima di crescente intolleranza che si respira in Turchia da qualche anno a questa parte, quando il governo ha compiuto una svolta autocratica: questa posizione è stata evidenziata, ad esempio, dal ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla lotta alla violenza domestica e alla violenza sulle donne nel luglio 2021. Ora, Erdogan sta moltiplicando gli attacchi alla comunità Lgbtq+, ostacolando le marce del Pride ogni anno e incoraggiando manifestazioni ostili contro di esse. Nello specifico, fare film sta diventando sempre più difficile, soprattutto se si tratta di opere con una sensibilità politica. Le autorità esercitano una pressione indiretta, facendo intendere che i fondi potrebbero essere ritirati qualora alcuni elementi della sceneggiatura non venissero approvati.

Questo weekend il popolo turco si è trovato di fronte a una scelta storica tra due candidati alla presidenza che offrono visioni drasticamente diverse per il futuro del Paese. Come ha raccontato la Bbc, quasi l’8 per cento dell’elettorato si è recato al voto per la prima volta e molti giovani elettori ritengono che la vita in Turchia sia diventata sempre più difficile, per vari fattori. «Siamo di fronte a un momento di importanza epocale per la Turchia: il futuro del Paese dipende largamente da queste elezioni», mi spiega Ragip Soylu, giornalista turco di Middle East Eye.

Dopo oltre vent’anni al potere, Erdogan promette una Turchia più solida e milioni di posti di lavoro. Dal 2017, gestisce il Paese con ampi poteri presidenziali da un sontuoso palazzo ad Ankara: può dichiarare lo stato di emergenza e può scegliere o licenziare i dipendenti pubblici, ad esempio. Nel 2016, dopo un fallito colpo di Stato, ha risposto con un referendum costituzionale che ha trasformato la Turchia da Paese a sistema parlamentare a uno presidenziale e ha eliminato la carica di Primo Ministro. «Negli ultimi anni c’è stata una progressiva deriva verso un uomo solo al comando. La sua posizione, però, ora è in difficoltà, soprattutto a causa delle crisi economica e abitativa in molte aree del Paese», racconta Soylu.

Il suo principale rivale, Kemal Kilicdaroglu, è sostenuto da un’ampia coalizione e vuole riportare la Turchia in una cornice pienamente democratica, restituire importanza al Parlamento, indipendenza ai tribunali e libertà alla stampa, all’insegna di diritti civili e libertà d’espressione. Soprannominato “Gandhi Kemal” dai media turchi, Kilicdaroglu ha ricevuto il sostegno politico dell’opposizione: sei partiti si sono riuniti nell’Alleanza Nazionale per sostenerlo. «Queste elezioni riguardano coloro che difendono la democrazia contro il regime autoritario», ha dichiarato nell’aprile scorso a Time.

Secondo la legge elettorale turca, per vincere il candidato deve conquistare più del cinquanta per cento dei voti al primo turno. Gli analisti prevedevano che difficilmente uno dei due leader avrebbe ottenuto la maggioranza dei voti: il vincitore si deciderà al secondo turno il 28 maggio. Una vittoria dell’opposizione potrebbe avere conseguenze significative sulla democrazia, l’economia e la politica estera del Paese; soprattutto, potrebbe avere un effetto positivo sull’industria creativa turca, attanagliata spesso da condizionamenti politici e difficoltà economiche, in linea con il generale momento di crisi finanziaria.

«Per quanto riguarda il mercato editoriale, c’è molta più libertà rispetto all’industria cinematografica», spiega Ragip Soylu. «Ci sono stati degli attacchi politici contro specifiche case editrici, in particolare quelle collegate alle comunità curde e Lgbtq+, ma c’è una maggiore flessibilità: sul mercato si possono trovare anche libri critici nei confronti di Erdogan». A mettere in difficoltà l’industria c’è però la crisi economica, più che la censura governativa: un anno fa, gli editori turchi sono sprofondati in una pesante crisi e sono stati costretti ad affrontare scelte difficili per sopravvivere. L’inflazione dilagante ha indebolito il potere d’acquisto dei lettori e la pubblicazione di libri è diventata molto più costosa. Secondo i dati di febbraio 2022 dell’Istituto di Statistica della Turchia, l’aumento annuale dei prezzi della carta aveva raggiunto la cifra record del 168 per cento.

Molti piccoli editori rischiano di fallire: uno sviluppo preoccupante per un’industria strategica. Nel 2021 in Turchia sono stati pubblicati più di 87 mila titoli, collocando il Paese al sesto posto nella classifica mondiale. Dopo la chiusura di molte cartiere nazionali negli ultimi anni, il settore si affida ora alla carta importata, il cui prezzo è salito alle stelle a causa della svalutazione della lira. Ma la carta non è l’unico problema: gli editori importano anche inchiostro e colla per rilegare i libri. Il cinema, invece, procede soprattutto contando sui finanziamenti del governo: il ministero della Cultura e del Turismo eroga fondi consistenti a sostegno del settore. Gli anni 2000 hanno visto crescere i budget per i nuovi film e il livello tecnico della produzione. Una nuova generazione di artisti ha prodotto (non senza equilibrismi politici) film che hanno provato a mettere in discussione le disuguaglianze e hanno promosso il dissenso.

«I finanziamenti statali condizionano in modo pesante la creatività degli artisti e Burning Days è stata un’eccezione significativa. Anche l’Istanbul Film Festival negli anni è stato teatro di interventi controversi da parte della polizia, perlopiù mirati alla comunità LGBTQ. Uno dei temi fondamentali, che riguarda il cinema come i video musicali, riguarda il corpo: mostrare scene con nudi parziali può suscitare la reazione delle autorità locali», sottolinea Soylu. «Nell’industria cinematografica ora si respira molta apatia nei confronti della politica». Un nuovo governo potrebbe proporre, ai cittadini locali come al resto del mondo, una nuova idea di Turchia. Secondo il giornalista turco, «Kilicdaroglu ha fatto promesse importanti: ha parlato di libertà e diritti in modo chiaro, cercando di scrivere una nuova pagina. Se Erdogan dovesse vincere, sarebbe invece business as usual: la mia paura è che molti intellettuali e artisti potrebbero lasciare il Paese per potersi esprimere più liberamente».