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Quanto ci hanno stancato i trend

Dopo l'ondata di micro tendenze nate negli ultimi anni, su TikTok la community discute di come trovare – e mantenere – uno stile personale, abbracciando la vecchia divisa.

di Bianca Costantino Muniz

Ognuno di noi attribuisce all’abbigliamento uno specifico peso e ruolo nel determinare la nostra identità, ma nell’ecosistema della società contemporanea il veloce ricambio dei trend è sempre più una certezza. Scorrendo TikTok, ad esempio, ci si imbatte almeno una volta in una nuova tendenza che definirà – nel migliore dei casi – lo stile delle successive quattro settimane prima di essere sostituita da qualcos’altro. Si susseguono il desiderio di portare fiocchi rosa fra i capelli in nome del Ballet-core con quello di indossare maglioni voluminosi dai colori pastello, secondo le norme del Cottage-core: non si tratta infatti di “attitudini” legate ai soli indumenti ma più ampie ispirazioni che definiscono gusti, attività e ambienti da frequentare. I fattori che possono generare un “trend-core” sono numerosi: l’uscita di una serie Tv, un sapore nostalgico oppure un nuovo prodotto lanciato sul mercato.

Questo spiega allora perché su TikTok, per almeno un mese, migliaia di persone dalle lunghe trecce e un’espressione comicamente tenebrosa abbiano ballato “Goo Goo Mack” dei Cramps seguendo la coreografia di Wednesday Addams nel popolare show di Netflix. Allo stesso modo, la fissazione con lo stile “old money” – ne parlavamo nell’ultima newsletter di Industry, ci si iscrive da qui – spiega bene perché la nostalgia sia la chiave che sblocca il desiderio di acquisto. Sono bastati bomber imbottiti e modelli che hanno solcato la passerella con un cuscino in mano, per stabilire la nascita del Bed-core, a sostituzione del già superato Goblin mode. In questo mare sterminato di trend, però, ritorna a prendere piede un fenomeno che sembra porsi all’esatto opposto dello spetto, il cosiddetto “uniform dressing”, che fa della definizione dello stile personale la sua missione. Il concetto di uniforme viene comunemente associato ad abiti che omologano, appiattendo le distinzioni tra gli individui, ma in questo caso si intende la costruzione di un guardaroba identificativo a lungo termine. È una scelta che trova nella sua origine molteplici motivazioni: un desiderio di praticità, l’espressione di un valore personale o semplicemente un’abitudine. Steve Jobs con i suoi dolcevita neri, firmati Issey Miyake, riduceva il tempo speso a decidere cosa indossare. Elizabeth Sweetheart, anche nota come la Green Lady di Brooklyn, interpreta tramite i suoi abiti rigorosamente verdi, il legame con la natura e la sua terra d’origine, la Nuova Scozia. Diversamente, la scrittrice e comica Fran Lebowitz, non ha voluto costruire un’uniforme riconoscibile ma semplicemente ha fatto della giacca oversize, una camicia bianca e un paio di jeans il suo modo di vestire. Che ci sia una riflessione alla base o che si tratti di praticità, la divisa sembra trovare nuovi adpeti anche tra la Generazione Z.

Senza nessuna sorpresa, è su TikTok, dove il trend-core ha spopolato negli ultimi anni, che si sta facendo spazio il fenomeno opposto. È possibile infatti navigare sulla piattaforma scoprendo diversi criteri che permettono di stabilire in pochi minuti quale sia il proprio stile e se un capo di abbigliamento sia un acquisto coerente o una spesa trascurabile. Un sistema lo ha proposto Amy Smilovic, fondatrice e creative director del brand Tibi, che ha fatto del “Three Words Method” uno dei suoi pilastri fondanti. Si tratta di una teoria secondo cui è possibile selezionare tre termini chiave per definire il proprio stile. Il primo passo consiste nello scegliere una serie di look che ci piacciono, osservandone i caratteri in comune e infine stilando una lista di aggettivi identificativi. L’obiettivo finale è quello di avere abiti che rispecchino effettivamente il proprio gusto ma soprattutto che assolvano al compito che in molti gli assegnano: farci sentire a proprio agio.

Prosegue sulla stessa corrente la stylist Allison Bornstein, che impiega il “Three Words Method”, il cui hashtag conta 6.2 milioni di visualizzazioni, per descrivere l’abbigliamento di personalità comunemente ritenute icone di stile. È così che vengono definite Kate Moss con gli aggettivi fine, decostruito e vintage, Chloë Sevigny con stravagante, inaspettato e rifinito e Carolyn Bessette Kennedy con classico, minimal ed elegante. Assieme al sistema delle tre parole, Bornstein propone poi un altro metodo per costruire la propria uniforme. Si tratta della ricerca e l’analisi di capi senza tempo, ritenuti generalmente “classici” come la giacca di pelle o il montone. La stylist spiega che per capire se un capo sia “trendy or timeless” basta porsi tre domande: avrei indossato quel pezzo mesi fa? Lo vorrò indossare tra un anno? Se tra cinque anni tornasse di moda, vorrei di nuovo indossare quello stesso articolo? Se la risposta alle tre domande è sì allora si può procedere all’acquisto. A convalidare il bisogno di superare i microtrend, si pone con decisione l’hashtag #timelessstyle, forte delle sue 17 milioni di visualizzazioni.

«Crearsi un’uniforme rende immediatamente riconoscibili e libera la mente ogni mattina per pensare ad altro oltre ai vestiti». Lo ha spiegato la giornalista del New York Times Vanessa Friedman nella sua newsletter settimanale, Open Thread, dove ha risposto a una lettrice curiosa riguardo le abitudini di stile dei designer. Dopo aver parlato con i direttori creativi Pierpaolo Piccioli e Haider Ackermann, Friedman ha spiegato come negli anni questi abbiano scelto di vestirsi quasi sempre di nero pur trascorrendo le loro carriere ad ideare intere collezioni. Questo colore permette loro di lasciare totale visibilità alle creazioni, mantenendo una distanza tra sé stessi e il proprio lavoro. Della medesima opinione si è dimostrato Daniel Roseberry, che trova nella sua divisa un espediente per dirigere tutte le energie nei progetti.

Non si tratta, allora, di una questione di mera praticità, visto che dai commenti sui social compare un altro valore in gioco, ovvero una maggiore responsabilità verso l’ambiente. Identificare un proprio stile significa infatti avere delle linee guida nel momento in cui si valuta un acquisto. L’effetto è una significativa riduzione dei consumi e la scelta di un prodotto che, si presuppone, debba durare nel tempo. Questo approccio diventa ancora più di impatto se si considera che, il più delle volte, la soluzione più papabile per rinnovare il guardaroba si rivela il fast fashion, in particolare il brand Shein, le cui problematiche di inquinamento e totale mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori sono state ampiamente segnalate e criticate, come fu a suo tempo per Zara e H&M. Il tema è stato affrontato dalla trend forecaster Mandy Lee, che ha costruito sul suo profilo @oldloserinbrooklyn uno spazio dedicato all’analisi dei trend attuali e futuri, dove spiega al suo pubblico come funziona il ciclo delle tendenze, in che modo valutare la loro durata e il conseguente consumo eccessivo per starne al passo. Nel suo primo video, andato virale nel 2021, aveva messo in luce il rischio che potesse diventare impossibile catalogare tutti i trend a causa del loro numero elevato, ipotizzando che sviluppare uno stile personale risultasse l’unica soluzione. Lo ha ribadito successivamente nelle sue osservazioni sui possibili fenomeni ricorrenti del 2023, illustrando come sempre più i consumatori desiderino un qualcosa che permetta loro di distinguersi. Cosa succederà dopo che avverrà la predetta implosione dei trend? Secondo la creator, si manifesterà una tendenza verso l’uniformità, resa tramite una selezione di colori neutri e il ritorno di un’estetica minimalista, di cui lo stile scandinavo ne è una manifestazione, basti vedere influencer come Matilda Djerf.

Il successo delle previsioni come quelle di Mandy Lee non è solamente dovuto all’informazione che condividono, ma anche al senso di sicurezza che trasmettono. Sentirci dire che sviluppare uno stile personale, o meglio una nostra uniforme, ci rende più responsabili e ci permette di mostrare un’immagine forte di noi stessi, ci inietta fiducia, il che non è secondario in un momento storico complesso come quello presente. Di conseguenza chi si è costruito una sua uniforme si è creato una certezza, consapevole di cosa stia raccontando attraverso gli abiti che indossa e che la sua storia sia stata capita. Anche per questo spesso vengono prese come modello di riferimento le famose icone di stile che la stylist Allison Bornstein ha definito con il metodo delle tre parole.

Il risultato è un panorama complessivamente pieno di buoni propositi, acquisti consapevoli e rinunce all’impulsività, ma c’è solo una domanda ricorrente nei commenti, che lascia aperto il dubbio se effettivamente stiamo cambiando: “E se uno di questi trend mi rappresentasse?”. La soluzione preferita dalla community è quella di adottare con un taglio personale la proposta del momento. Dunque, non resta che chiedersi se effettivamente il cambiamento in corso non sia altro che una reazione temporanea a un bisogno di maggiore certezza, che scomparirà velocemente con l’arrivo di qualcosa di nuovo e più accattivante. Dopo tutto il ricambio dei trend è in parte dovuto alla noia e nell’eventualità in cui la cara vecchia divisa diventasse un comportamento estremamente diffuso, si potrebbe passare ad altro, lasciando questo approccio all’abbigliamento ai suoi autentici sostenitori, come d’altronde è sempre stato.