Il therapy speak ha trasformato le nostre vite in un’infinita e frustrante autoanalisi

Parole come narcisista, codipendenza e neurodivergente fanno ormai parte del linguaggio comune. Ma spesso le usiamo senza capirle davvero e il loro abuso sta contribuendo al peggioramento della salute mentale di tutti.

09 Dicembre 2025

A casa mia alcune parole non sono mai esistite. Non perché mancasse la competenza lessicale adeguata, ma per una precisa volontà di escludere determinati concetti dalla percezione quotidiana. Di certo la più significativa di queste parole era “depressione”. Probabilmente è stato per un misto di imbarazzo, negazione della realtà, volontà di protezione: il brodo primordiale degli errori importanti.

Questa delicatezza afona, ben lontana dal nascondere ai figli la vulnerabilità del genitore, ha prodotto il desiderabile effetto di perpetuarla, sgocciolarla ovunque, renderla codice di scrittura della realtà. Il resto è ormai storia, accuratamente fatturatami dagli analisti nel corso degli anni. Così arriva il mio fanatismo verbale, nonché la mia radicata convinzione che l’abbattimento dello stigma sociale riguardante la terapia sia la singola, unica, gigantesca conquista di una generazione puerile, la mia. Se i nostri genitori avessero avuto la stessa facilità d’accesso alla cura della salute mentale chissà dove saremmo ora. In un posto migliore, con ogni evidenza.

Ma rimaniamo pur sempre teneri e inadeguati, quindi non abbiamo ancora solidificato questo grande passo avanti che già siamo vittime di infiltrazioni. L’urgenza di consapevolezza ha cominciato a farci sottilmente disprezzare l’ambiguità delle parole. La familiarità nuova e diffusa con un linguaggio tecnico non ha aiutato: abbiamo cominciato inesorabilmente ad usare il gergo terapetico anche nelle nostre vite private, ottenendo l’invidiabile risultato di comunicare con le persone che amiamo come se ci trovassimo dentro un eterno ufficio con un HR millenario che ci fissa.

La patologizzazione della sofferenza esistenziale

La prima e più evidente conseguenza di questo vezzo è la patologizzazione della sofferenza esistenziale, di ogni tipo. Ma non tutte le persone che ci hanno fatto soffrire sono narcisiste, non tutte le storie finite male erano codipendenza, non sei necessariamente neurodivergente se faticavi a scuola, raramente conosciamo qualcuno abbastanza bene – figurarsi noi stessi – da decidere in autonomia quale sia il suo stile di attaccamento. Approcciarsi all’altro nascondendosi dietro categorie diagnostiche aggressive che si maneggiano a malapena è più o meno l’esatto contrario del cercare un confronto onesto, sano.

Questo bisogno di precisione linguistica riflette in maniera cristallina, in compenso, quanta sofferenza stiamo gestendo a livello collettivo, socio-economico. Quanto sia stringente il bisogno di mettere argini alla paura. Muri, confini di cui potersi fidare. L’ovvio appiattimento dell’esperienza umana della complessità suona meno minaccioso del futuro, in questo momento storico.

Nelle relazioni il therapy speak è un gioco affilato, perché può diventare un tentativo torbido di elevarsi al di sopra delle parti. Non mi stai facendo soffrire, stai facendo qualcosa di molto più oggettivo e tassabile: sei una persona tossica. Il vocabolario medico innalza il parlante, patologizza istantaneamente le ragioni dell’altro e infine la parte migliore di tutte, la perla, la ciliegina sulla torta, il bacio accademico: consente il lusso di non ascoltarlo nemmeno, l’altro, mentre scaldiamo il nostro ego infreddolito con la convinzione di essere la più matura e risolta fra le persone mature e risolte. Abbiamo mantenuto i nostri boundaries! In effetti un altro dei risultati collaterali di questa medicalizzazione di massa che non avrei mai immaginato, ma che adesso mi appare da sempre scritto in cielo a caratteri cubitali, è quanto tutta questa terapia rischiasse di renderci delle persone discutibili.

Il termine terapeutico muore un po’, anche. Nato per essere pronunciato da bocche titolate a farlo in contesti idonei al suo uso, si diluisce semanticamente in qualcosa che non rappresenta più una condizione clinica, ma un imprecisato luogo dell’anima. “Ansia” e “narcisismo” li abbiamo sacrificati così.

Il nostro Infinite Jest personale

La conseguenza peggiore in assoluto di questo fenomeno, infine, è per il nostro sguardo che è costantemente, ferocemente rivolto solo verso noi stessi. Le nostre banalità e le nostre tragedie sono il nostro Infinite Jest personale. Un’attenzione selettiva e onanista che si traduce nell’impossibilità di percepire le cause collettive e sociali di certi malori, di certe inquietudini. L’impossibilità, in sintesi, di fare politica.

C’è un dettaglio forse utile a contestualizzare, forse no: la psichiatria è democraticamente nata negli ospedali pubblici europei. La stessa cosa non si può dire della psicoanalisi in senso moderno, che è nata in uno studio di pratica privata: quello di Herr Professor, Sigmund Freud. Il quale per altro si faceva chiamare così, ma professore non divenne prima della tarda età. Siamo fragili, come dicono i Club Dogo.

Quella della psicoanalisi è una indole borghese, liberal nel senso americano del termine, che la pratica non ha mai davvero abbandonato. Il percorso analitico è un contratto fra due privati, del tutto epurato dal concetto di bene pubblico e del cittadino che alimenta la sanità statale. Solo le parti del contratto possono decidere cosa è bene per chi si sottopone a terapia, analista e analizzato hanno tutto il diritto di chiudersi nel loro piccolo mondo. È un diritto sacro che tuttavia si fonde inquietantemente bene con la psicoanalisi “popolare” dei portali pubblicizzati in tv e la diffusa compiacenza di chi si trova a doverci lavorare in condizioni il più delle volte precarie. Condizioni che magari possono spingere a contare sulla fidelizzazione di un cliente a suon di rassicurazioni e di non-è-colpa-tua. Insomma piuttosto che elevare le masse al livello della psicanalisi, magari portando ascolto analitico in luoghi di disagio, la sua diffusione ha avuto l’effetto di abbassare la psicanalisi a livello popolare, generando forme low cost, ma soprattutto low impegno di terapia che spesso mancano del tutto della fatica, della tensione, del coraggio che caratterizzano un reale percorso terapeutico.

Elvio Fachinelli diceva che se una terapia dura più di quattro anni allora quella terapia è fallita. Ma lui ne diceva tante. Un’altra bella è la famosa riflessione sul mestiere di analista equiparabile a quello di prostituta: in cambio di un onorario anche l’analista fornisce un servizio ascrivibile all’ordine dell’eros, sicché… D’altronde è stato una figura storica della pratica italiana, ma anche della cultura tutta intesa come intelligenza viva, sfidante, radicale. Antitetico ai moderni approcci di mindfulness e via dicendo, «per lui l’intervento analitico doveva essere puntuale, piccoli abili colpi di fioretto, la battuta che ti fa svoltare, non una convivenza annosa che assomiglia a un matrimonio in bianco».

Un modello totale di felicità

Fachinelli è stato uno dei primi discepoli di Lacan, tanto che gli venne proposto di presiedere l’istituto italiano, opportunità che rifiutò. Ne parlo non solo per fissazione personale, ma anche e soprattutto perché mi sembra che la sua ricerca avesse trovato un punto di significato. Per esempio nell’individuazione di un modello totale di felicità, che Fachinelli vedeva nel suo maestro, Musatti. Lo cita in un ritratto che ne fa nei suoi appunti:

«Ci sono individui per i quali le disgrazie esistono, sì, ma vengono sopportate, non per insensibilità, per aridità, o per labilità di memoria, per cui le cose sgradevoli vengano gettate dietro le spalle, ma perché hanno in se stessi una forza speciale, che alimenta ed arricchisce continuamente la vita, così che godono di cose che lasciano indifferenti altri, e dispongono di inesauribili risorse; tanto che non ci sono persecuzioni, sventure familiari, economiche, o di salute, che li possono piegare. Felici, e contenti della propria esistenza, qualunque cosa accada (..). Danno l’impressione di essere in possesso di un segreto. Credo che questi, nel Medioevo, li facessero santi. (…)Ma il povero psicologo moderno, che ai santi non può rifarsi, come se la cava per spiegare la natura di questi individui e il segreto dunque del loro ottimismo? (…) Per queste altre persone invece avviene una cosa diversa. E cioè un arricchirsi con la vita altrui, che trasforma la propria unicità in una pluralità di esistenze. Questo è il segreto».

Ecco quindi che appare una via laica e sensata: fare comunità. Andare oltre il desiderio impossibile di azzerare i traumi e di contenere in qualche modo il dolore, perché la felicità abita altrove e se c’è uno scopo finale all’analisi (alla vita?) è probabilmente cercare di raggiungerla. La collettività prepara una strada che è fatta di curiosità e desiderio, non di bisogno. Se tutta questa consapevolezza accumulata provassimo a rivolgerla verso l’altro piuttosto che verso noi stessi forse il nostro sguardo si acuirebbe un po’. Siamo danneggiati, siamo vulnerabili l’abbiamo per fortuna imparato. Forse non è fondamentale parlarne tutto il tempo. Più utile indirizzare questa nostra ritrovata presenza nel qui ed ora lontano dallo specchio e non perché siamo buoni, ma perché è un modo per raggiungere un fine molto egoista, cioè conoscere la cara vecchia felicità. Soffro molto la parola “empatia” causa inflazione, appunto, quindi ne userò una più grave: compassione. Andarci in terapia e poi dimenticarsene.

È contemporaneamente più e meno difficile di quanto sembri.

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