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La tv argentina ha scambiato Gasperini per il truffatore che si era travestito da sua madre per riscuoterne la pensione Un meme molto condiviso sui social italiani è stato trasmesso dal tg argentino, che ha scambiato Gasperini per il Mrs. Doubtfire della truffa.
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The Last of Us è l’inizio di una nuova era per l’industria dell’intrattenimento

La serie Hbo, da oggi in Italia su Sky Atlantic, dimostra finalmente che è possibile trasformare un grande videogioco in un eccellente prodotto per il grande o piccolo schermo, aprendo così nuove possibilità per gli adattamenti che verranno.

16 Gennaio 2023

The Last of Us potrebbe essere per i videogiochi quello che il Superman di Richard Donner fu per i fumetti supereroistici: la dimostrazione che la possibilità di adattare con successo un videogioco in un film (in questo caso serie tv, ma la differenza non esiste più ormai da anni), di tradurre un linguaggio in un altro linguaggio esiste. Sono trent’anni che Hollywood cerca la formula e sono trent’anni che fallisce: dal 1993 a oggi, da quel primo, disastroso, leggendario adattamento di un videogioco in film – il Super Mario Bros. in cui Bob Hoskins faceva Mario, John Leguizamo era Luigi e, per qualche ragione, nella parte di King Koopa fu scelto Dennis Hopper – nessuno è mai riuscito a rendere cinematografica l’esperienza videoludica. O meglio: ci sono riusciti i videogiochi, che negli anni hanno aggiunto a se stessi complessità narrative e raffinatezze estetiche che oggi li rendono, in certi casi, veri e propri film interattivi. Se per questa trasformazione – evoluzione? – del videogioco in qualcosa di più di se stesso per come era stato pensato e realizzato in origine si volesse stabilire un punto di arrivo, questo sarebbe certamente il 14 giugno del 2013, giorno in cui la software house Naughty Dog faceva uscire la prima metà della saga di The Last of Us. Tra gli appassionati di videogiochi, nessuno aveva mai visto niente del genere, nessuno aveva mai vissuto un’esperienza simile. Era La strada di John Hillcoat tratto da Cormac McCarthy, era Léon di Luc Besson, era Lone Wolf & Cub di Kazuo Koike e Gōseki Kojima, era 28 giorni dopo di Danny Boyle, era Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen (sempre McCarthy), era l’ennesimo aggiornamento del mito zombie fondato da George A. Romero. Quasi tutti riferimenti cinematografici, a dimostrazione di come in trent’anni gli scopi e le ambizioni e la natura stessa del videogioco fossero cambiate.

Che The Last of Us non sarebbe finito con le sue iterazioni videoludiche lo si poteva capire già alla fine della prima scena del videogioco, quella in cui il giocatore conosce uno dei due protagonisti della storia – il contrabbandiere Joel – attraverso un lungo flashback (ripreso in parte nella premiere della serie, con un notevole uso della soggettiva per imitare la condizione del single player) vissuto attraverso il punto di vista di Sarah, la figlia dodicenne uccisa all’inizio dell’epidemia causata da una mutazione del fungo Cordyceps. Una scena semplicemente troppo cinematografica per non diventare cinema o tv. Voci che non sono state e non saranno mai confermate dicono che Craig Mazin abbia deciso che un giorno avrebbe adattato The Last of Us in un film o in una serie tv subito dopo aver finito di giocare quella scena. «Per me, è un’opera d’arte», ha ripetuto più volte Mazin nelle tante interviste che ha concesso in queste settimane per promuovere la premiere di The Last of Us la serie tv, andata in onda ieri negli Stati Uniti e in arrivo oggi in Italia su Sky Atlantic e Now. Mazin è l’autore di Chernobyl, serie che gli ha portato una fama peculiare tra gli autori tv contemporanei: quella del narratore esperto del «collasso dei sistemi», del talento adatto a raccontare la società che si sgretola. E in effetti The Last of Us è molto più post-apocalittico che apocalisse zombie: quando la storia comincia davvero, l’epidemia ha già ucciso gran parte degli esseri umani e lasciato dietro di sé un mondo ostile e barbaro, basato sulla necessità di sopravvivere e sull’inevitabilità della violenza. C’è una scena di “When you’re lost in the darkness”, l’episodio pilota di The Last of Us, che spiega alla perfezione i tempi e i modi di quel che rimane del mondo dopo la pandemia: tra la morte clinica di un ragazzino infetto e l’obbligatoria cremazione del suo corpo passano pochi minuti e tutti si svolge con l’indifferenza di una dolorosa necessità che si è fatta abitudine quotidiana. Il collasso dei sistemi, appunto.

È il mondo, questo, in cui eccellono figure come Joel, nella serie interpretato da Pedro Pascal (i fan di Game of Thrones se lo ricorderanno come la Vipera rossa Oberyn Martell), e in cui soffrono persone come Ellie – interpretata da Bella Ramsey, anche lei reduce di Game of Thrones, volto della piccola e letale Lyanna Mormont– quattordicenne che il destino ha deciso di segnare regalandole un sangue che non marcisce in seguito al morso di una persona infettata dal Cordyceps, ingrediente fondamentale di quella che potrebbe essere la cura. La storia di The Last of Us comincia davvero quando Joel incontra Ellie, il momento in cui questo mondo apocalittico inizia la sua redenzione e questa storia la sua trasformazione. All’inizio, Ellie è per Joel solo un’altra delle abitudini quotidiane di cui sopra: un’altra merce da consegnare nella sua giornata da contrabbandiere, una giornata che trascorre tra gli eccessi uguali e contrari delle due fazioni – le Luci e la Fedra, la Federal Disaster Response Agency – che si arrogano il diritto di salvare quel che resta del mondo. Con il passare del tempo, il rapporto tra i due cambierà e Joel riscoprirà in Ellie le dolorose necessità – tra tutte: uccidere e ricordare – alle quali questo mondo in rovina costringe. Con il passare del tempo e il cambiamento del rapporto tra i due protagonisti, si trasforma anche la natura della storia raccontata da The Last of Us: da survival horror a hopeful drama, come hanno cominciato a chiamarlo i critici che ne hanno scritto in questi giorni (tutti benissimo, tra l’altro: al momento Rotten Tomatoes indica che la serie ha ottenuto il gradimento del 99 per cento della critica).

The Last of Us potrebbe essere il primo segnale di un cambiamento che sta avvenendo e che prima o poi sarebbe dovuto avvenire nel mondo dell’intrattenimento americano. L’industria videoludica è ormai troppo ricca economicamente e culturalmente influente per restare dentro i suoi confini originali, e ha bisogno di una definitiva legittimazione che può però avvenire solo al di fuori di sé. L’industria cinematografica, d’altro canto, ha bisogno di nuove fonti alle quali attingere (prima o poi, finiranno anche i supereroi e i fumetti da adattare).

Nella serie The Last of Us c’è tutto quello che è mancato nei precedenti tentativi di adattare un videogioco in qualcos’altro. Innanzitutto, ci sono i soldi. Tanti: per i nove episodi della prima stagione, Hbo ha speso poco più di cento milioni di dollari, più di quanto speso per la prima stagione di Game of Thrones. Poi c’è il talento: quello di Mazin, ovviamente; quelli di Pascal e Ramsey, uniti da una chimica promettentissima; quello di Neil Druckman, il creative director di The Last of Us il videogioco, che ha affiancato Mazin sin dall’inizio del lavoro di quest’ultimo come showrunner dell’adattamento televisivo. Soprattutto, la serie arriva in un momento e a un pubblico mai così ricettivi nei confronti di racconti pandemici e apocalissi imminenti (se una cosa la pandemia di Covid-19 l’ha cambiata davvero, è il modo in cui reagiamo a queste storie: fa sempre impressione avvertire dentro di sé il sollievo di chi sa che sarebbe potuta andare come in The Last of Us, chi lo sa. Per fortuna). The Last of Us ha tutto quello che serve, insomma, per essere il primo capitolo di una storia nuova. E, forse, l’inizio di una nuova epoca dell’industria dell’intrattenimento.

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