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L’anima naturale del mondo digitale

Un estratto da The Game Unplugged, la raccolta di saggi che sviluppa le riflessioni di Alessandro Baricco sull’era di internet.

07 Giugno 2019

È uscito in libreria The Game Unplugged, la raccolta di saggi che approfondisce e sviluppa i temi proposti in The Game di Alessandro Baricco, tentativo di fare il punto sull’insurrezione digitale. Di seguito trovate un frammento del testo con cui Davide Coppo, uno dei 12 autori chiamati a contribuire alla raccolta, ha esplorato alcuni equivoci sulla “natura della natura”, al centro dei quali, spesso, si trova il mondo digitale.

La Valle delle Delizie della Terra era un soprannome più che adeguato per la Santa Clara Valley che, a partire dal 1800, grazie a una serie di fortunate e casuali circostanze quali posizione e clima, diventò uno dei luoghi più adatti sul pianeta per la crescita di alberi da frutto. Distese di frutteti di albicocche, prugne e pesche stimolarono una grande crescita economica e, di conseguenza, ondate su ondate di immigrazione. Nella Valle delle Delizie servivano sempre più lavoratori e vi si trasferirono giapponesi e cinesi, italiani, filippini, europei dell’Est. Il soprannome durò fino agli anni Settanta, quando un giornalista locale ne coniò uno nuovo per descrivere quello che intuiva potesse essere un importante cambiamento nel business della zona, e che si affermò negli anni Ottanta, arrivando fino a oggi. Quella Valle, non piú coltivata a prugne e albicocche, oggi è conosciuta nel mondo come Silicon Valley.

Potrebbe essere, questo, un buon aneddoto a effetto per dimostrare quanto la tecnologia – in particolare la rivoluzione digitale che da quella stessa Valle ha preso le mosse – abbia creato una barriera tra uomo e natura, ma sarebbe una semplificazione  e sarebbe soprattutto falso. Lo dimostra in modo semplice, e netto, il nuovo soprannome di quella Valle: il silicio è un semiconduttore fondamentale per la creazione dei chip, ma è soprattutto un minerale tra i più diffusi sul pianeta Terra. Quanto è ingenuo e antropocentrico pensare che un’albicocca sia più naturale di una manciata di sabbia.

Un altro elemento naturale di cui si parla molto poco (troppo poco, probabilmente), e che è invece essenziale alla nostra vita online, cioè ai nostri computer e ai nostri smartphone, e che molto presto sarà essenziale anche al modo in cui ci sposteremo in giro per le città, è il cobalto. Senza il cobalto, difficilmente potrei scrivere queste parole su un laptop, difficilmente potrei leggere un WhatsApp sul mio smartphone e difficilmente ci potremmo spostare sulle amate auto elettriche – proprio quelle che dovrebbero salvare la natura. La natura è però anche questo: rocce, montagne, geologia, pezzi di terreno presi a picconate sottoterra, portati alla luce, lavati e raffinati e spediti in giro per il mondo. Il mondo digitale e immateriale ha le sue fondamenta nella natura, e sono spesso fondamenta marce. Torniamo al cobalto, quindi.

Il cobalto è un elemento indispensabile per le batterie al litio di tutto ciò che possediamo e funziona a batteria. Non potremmo avere batterie così piccole e così durevoli, se non fosse per il cobalto. Nel settembre 2016 il Washington Post pubblica un reportage sull’estrazione di cobalto nelle miniere del Congo meridionale, un articolo interattivo ricco di informazioni, di infografiche, di video, di dati numerici, di nomi e cognomi. Queste miniere rappresentano il primo grado di produzione del cobalto, in cui il minerale viene trovato, estratto, pesato e venduto. Queste miniere sono la base di un mercato già enorme, triplicato negli ultimi cinque anni, e che dovrebbe raddoppiare ancora nei prossimi due. La causa di questa corsa al cobalto sono soprattutto le automobili elettriche: se la batteria di uno smartphone contiene, in media, più o meno dieci grammi di cobalto, la batteria di un veicolo elettrico può arrivare a 15.000 grammi.

La sede di Silicon Graphics, Inc. fotografata il 21 aprile del 2000 a Mountain View, in California (foto di David McNew/Newsmakers)

Queste miniere, soprattutto, sono dette artigianali: non ci sono misure di sicurezza, non ci sono controlli, non c’è nulla se non l’intraprendenza dei singoli minatori, o creuseur, scavatori, come si chiamano loro stessi. Sono uomini e bambini che scavano buchi e ci si infilano dentro, e a mani nude estraggono quello che pensano essere cobalto, che viene poi ripulito dalle donne dei villaggi in un corso d’acqua naturalmente utilizzato anche per l’irrigazione, per essere poi venduto a dei comptoir gestiti molto spesso da uomini asiatici – nonostante sia illegale. Da qui inizia il viaggio verso la Cina.

Il 60 per cento del cobalto del mondo viene dal Congo. Tra il 20 e il 40 per cento di questo cobalto viene estratto in queste condizioni. Tra le compagnie che si riforniscono di cobalto «sporco» c’è anche Amazon, la società fondata da Jeff Bezos, il proprietario del Washington Post. Tutte si sono impegnate, verbalmente, a controllare in modo più scrupoloso l’intera catena di produzione del cobalto.

Le righe precedenti mostrano come, del mondo digitale, molto spesso si ignori la parte di hardware, che ha invece i piedi piantati bene a terra e a contatto con il Pianeta. I pezzi di questo hardware possono essere il cobalto per le batterie, la sabbia e il quarzo che compongono i chip, ma sono anche i server di Facebook installati a Luleå, in Svezia, a più di cento chilometri dal Circolo Polare Artico per risparmiare costi economici e ambientali di raffreddamento grazie al clima freddissimo della zona.

L’apparente dicotomia tra mondo tecnologico e mondo naturale è frutto di un equivoco nato molti decenni fa, e di cui questa dicotomia rappresenta in fondo solo una piccolissima parte: la resistentissima contrapposizione tra natura e cultura. Nelle prossime pagine non parlerò tuttavia del rapporto tra tecnologia, natura e umanità nella sua interezza – sarebbe decisamente troppo ambizioso in questo poco spazio, e dovrei metterci sì il silicio e il cobalto, ma anche satelliti e cavi sottomarini, droni e nuove linee ferroviarie che vogliono connettere Pechino a Parigi. Mi occuperò qui, invece, di una stanza più piccola, semplice, più personale e intima: quello che possiamo fare come individui, singolarmente, per fare pace con la natura in alcune sue declinazioni, senza dichiarare guerra alla tecnologia e, in particolare, al mondo digitale.

Il rapporto problematico tra uomo e natura non è iniziato con la rivoluzione industriale, ma quando, dodicimila anni fa, gli esseri umani decisero di smetterla di spostarsi, e di provare a stabilirsi per un po’ in un posto

Per iniziare, però, ci terrei a fare una precisazione grazie a due brevi storie che ho sempre trovato piuttosto solide per contrastare le posizioni che immaginano una guerra, per di più recentissima, tra la malvagità del progresso umano e un mondo floro-faunistico sacro e vergine. La prima è che il rapporto problematico tra uomo e natura non è iniziato con la rivoluzione industriale, ma qualche anno prima: più o meno quando, dodicimila anni fa, gli esseri umani decisero di smetterla di cacciare e raccogliere e muoversi e spostarsi, e di provare a stabilirsi per un po’ in un posto. Non erano grandi corporation né capitalisti affamati di facili guadagni: erano le prime società stanziali, era la nascita del sedentarismo, che si sviluppò, naturalmente, bruciando ettari ed ettari di foreste. E immettendo anidride carbonica – la stessa malvagia anidride carbonica che ancora oggi minaccia il futuro del pianeta e dell’umanità – nell’atmosfera. La civiltà è, di per sé, violenza alla natura.

La seconda storia riguarda in un certo senso le albicocche che crescevano rigogliose nella Santa Clara Valley prima dell’arrivo del silicio e delle corporation della tecnologia: non sono, così come non lo è alcun frutto, così come non lo è niente di quello che consideriamo verdura, naturali. Non esisterebbero, insomma, in uno stato naturale, ma crescono grazie a millenni di agricoltura, selezione, addomesticamento della natura da parte dell’uomo.

Potrei aggiungere una storia ancora: quella di Cathedral Pines, nel Connecticut. Cathedral Pines è una foresta di pini di 17 ettari, una delle più antiche del New England ed è, come dimostra il nome, molto riverita. Nel 1989 un tornado violentissimo passò sulla zona e riuscì ad abbattere 45 alberi secolari. La foresta si trovava vicino a un centro abitato, Cornwall, e lasciare quel mucchio di legno per terra non era una buona idea: poteva facilmente seccare e prendere fuoco, e di legna da bruciare in pochi minuti lì intorno ce n’era parecchia. Un motivo semplice e ragionevole per cui molti residenti chiesero che l’area venisse ripulita e che nuovi alberi fossero ripiantati. Molti ecologisti, o presunti tali, si opposero: i pini erano stati abbattuti da un evento naturale, e andavano lasciati lí, perché la natura avrebbe fatto il suo corso e avrebbe saputo cosa fare. Alla base di quest’ultima idea c’è un concetto di natura incontaminata ingenuo e potenzialmente dannoso. Analizzando gli anelli contenuti nei tronchi degli alberi caduti, si scoprì che intorno all’anno 1840 quei pini vissero un’improvvisa impennata nella crescita: frutto, molto probabilmente, dell’abbattimento delle latifoglie – competitor dei pini per la luce e le risorse del suolo – da parte dei boscaioli, che misero la loro firma tecnologica sullo sviluppo niente affatto incontaminato di Cathedral Pines.

Gli equivoci sulla natura della natura, sul suo stato, su cosa si può fare o non fare per salvaguardarla e non danneggiarla hanno un’origine antica – il Romanticismo, soprattutto, ed Emerson e Thoreau – ma continuano ancora oggi. E il mondo digitale continua a esserne al centro.

L’articolo è tratto da The Game Unplugged ©2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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