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Suspiria di Guadagnino, parliamone

Stroncato negli Usa, approvato in Italia: finalmente possiamo giudicare coi nostri occhi il remake dell'horror di Dario Argento. Ma non è detto che sia un bene.

03 Gennaio 2019

Si può parlare di qualsiasi cosa, in questo Paese, senza fare sempre i tifosi, i partigiani, gli aderenti al solito circolino? Si può dire – no: scrivere su Facebook – che un film è bello o brutto, un libro è scritto bene o male, un programma in tv ci piace o ci fa schifo, senza per questo temere di comprometterci per sempre? S’intende: comprometterci con i nostri amici, e con gli amici degli amici che riporteranno il nostro status ai loro amici; e, per chi fa il mio mestiere, con uffici stampa e addetti ai lavori assortiti. Sarà un’impressione mia, ma i «Mattia pensa che Avatar sia una sòla» di ieri (era il tempo della tenerezza, sui social si scriveva di sé in terza persona) valevano come affermazioni personali punto e basta, senza sottotesti alcuni. Com’erano belle le bacheche di una volta.

I registi italiani sono, da sempre, terreno fertile per questo genere di ciaodarwinismo, inteso proprio come show di Paolo Bonolis: di qua chi la pensa come te, di là tutti gli altri. Negli ultimi anni – parlo della mia bolla, ma non solo – ci siamo scontrati su Paolo Sorrentino molto, su Matteo Garrone meno, su Gabriele Muccino poco perché è già troppo novecentesco, su Nanni Moretti mai perché la bolla lo salva sempre, e si potrebbe andare avanti all’infinito. Ma, tra gli autori italiani, il nome perfetto per il social-dibattito di oggi è uno solo: Luca Guadagnino. Sarà che ha incontrato il successo dopo il duemila (e oltre), epoca in cui, più delle recensioni sui giornali di carta, si vanno a cercare i post su Twitter. Sarà che, per il personaggio che è e per il cinema che fa, la divisione con lui/contro di lui è molto facile. C’è stato un momento in cui tutti sembravano d’accordo (in Italia, un miracolo!). L’annata scorsa Chiamami col tuo nome è piaciuto, giustamente, a tutti. Che noia, non c’era più da litigare manco su Guadagnino, erano lontani i tempi degli sfottò scandalizzati (a Melissa P., per quelli che si ricordano che l’ha girato lui) e dei fischi a Venezia (contro Io sono l’amore).

Una scena dell’horror di Dario Argento (1977), ispirato al romanzo Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey

Ma Guadagnino non è l’autore italiano classico, e tanto è bastato a procuragli comunque parecchi detrattori, pure nel momento di gloria. In molti, davanti a Chiamami col tuo nome, criticavano quel ritratto di omosessuali belli e privilegiati, con madri complici e padri comprensivi, buone letture e sottofondo di Bach. Di rimando, criticavano il regista, privilegiato anche lui, con la sua casa antica a Crema, le amicizie internazionali, i completi di Prada, le recensioni ai ristoranti di lusso su Vanity Fair, i progetti da auteur globale (il prossimo sarà ispirato a Blood on the Tracks, l’album di Bob Dylan del 1975). L’uso che molta gente fa dei social in questo Paese è in gran parte ancora uno: farci sapere che, di tutte le cose che ci sono al mondo, la borghesia colta è senza dubbio la peggiore (infatti poi vincono i Cinquestelle). Guadagnino, secondo loro, non si limita a raccontare storie: quella di Chiamami col tuo nome è solo una delle tante possibili, e sono possibili pure le madri complici e i padri comprensivi. No: Guadagnino racconta un’idea di mondo lontanissima da loro, un mondo di ricchi chiuso dentro case bellissime (Io sono l’amore a Villa Necchi Campiglio, A Bigger Splash nel dammuso di Pantelleria, Chiamami col tuo nome nella magione «somewhere in Northern Italy»), un mondo dotto e fané, snob e decadente. Guadagnino è difatti, e si è detto spesso, il vero possibile erede di Bernardo Bertolucci, estraneo al racconto dell’italianità come comanda l’esportazione tradizionale e in realtà riconosciuto come italianissimo nel mondo, e apprezzato in larga misura anche per questo.

È stato una bella sorpresa l’appoggio pressoché unanime dei nostri giornalisti al bel film precedente, è una sorpresa il sostegno di ora al remake di Suspiria, che sulla carta aveva fatto drizzare i capelli ai cinéphile del Pigneto: come osa mettere le sue mani ben curate proprio su quell’horror lì! Negli Stati Uniti, dove l’originale di Dario Argento è annoverato tra i cultissimi di sempre anche più che qua, ci sono andati giù pesante: «Va bene, ora che sappiamo che Suspiria è un film d’arte possiamo tornare al trash sfarzoso della casa stregata di una volta?», si legge su Variety; «Due ore e mezza di streghe così logorroiche che Hänsel e Gretel si sarebbero gettati loro nel forno, pur di non starle più a sentire», commenta il New York Magazine; «Un debole e sordido “holocaust kitsch” con un’eleganza da fanatico e la consistenza politica di una maglietta del Che», lo stronca il New Yorker. Qui da noi, fin dalla Mostra di Venezia (era in concorso, non ha vinto nessun premio), pare appunto piaciuto alla stampa tutta. Un po’ per l’effetto che fa a noi eterni provinciali l’autore che torna con l’Oscar in saccoccia (Chiamami col tuo nome ha vinto per la sceneggiatura non originale), un po’ senza ragioni apparenti.

Mia Goth in una scena del film di Luca Guadagnino (2018)

È piaciuto anche a me, per quel che vale. Perché, più che remake, o reboot, o come diavolo si dice oggi, è una versione molto personale e molto libera di un grande classico. Probabilmente Suspiria è davvero il più bel film di Argento, e tanto basta a rendere rilevante e spericolata l’operazione di Guadagnino. Che, invece di togliere per paura del confronto col mito, aggiunge roba, tanta roba, tutta sua: il Bauhaus, Tilda Swinton in doppio ruolo (state attenti), Pina Bausch, Berlino, le memorie della Shoah, Fassbinder, il rosso un po’ sangue un po’ Valentino, la musica di Thom Yorke, il suo Gucci-feticcio Dakota Johnson e le divette di nuova generazione molto campagna Miu Miu (Mia Goth, Chloë Grace Moretz). Un pastiche che funziona proprio per somma eccessiva di tutte le sue parti, per divertimento citazionista, per messaggio femminista ma mai modaiolo: la scuola di danza stregata è un matriarcato, sì, ma le donne che la abitano sono belle buone dolci e pure stronze cattive sanguinarie.

Qualcuno sui social, fin dalla Mostra di Venezia, ha comunque già storto il naso: mah, boh, nì. E sarebbe giusto così, se i nuovi media fossero ancora soltanto il luogo del mi piace/non mi piace. S’è capito che così non è, vedremo dunque come si dividerà il pubblico dal primo gennaio, giorno dell’uscita nelle sale italiane di Suspiria, tra guadagniniani e non. Una nuova puntata di Ciao Darwin in diretta Facebook, così per cominciare indignatamente l’anno nuovo.

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