Il licenziamento di Stephen Colbert è una prova importante del fatto che l’informazione americana sta cambiando

La chiusura del suo Late Night non ha quasi niente a che vedere con il palinsesto di una tv, ma è un evento che ci racconta l'effetto che la presidenza Trump sta avendo sul giornalismo americano.

24 Luglio 2025

Cattolico e tolkeniano. Un profilo che si addice più a un vicepresidente Maga, al massimo a uno speaker della Camera – a cui assomiglia, molto, fisicamente  – che non al principale e al più integro critico televisivo del trumpismo: Stephen Colbert. Per quasi un decennio è stata la spalla di Jon Stewart al Daily Show, che con le elezioni del 2000 è diventato un programma sempre più di infotainment battagliero, contro il bushismo neocon, le guerre in Iraq, Dick Cheney e tutto quello che si poteva protestare allora.  Colbert lì faceva l’idiota di destra, una figura che rappresentava un tipo di repubblicano in via d’estinzione. Poi per un altro decennio ha avuto un programma tutto suo dove ha fatto esplodere quel personaggio del Daily Show creando il Colbert Report.

Era così credibile, come giornalista e personalità di destra che alcuni prendevano Colbert per un vero conservatore. Colbert conosceva bene quel mondo, perché era stato reaganiano prima dell’università, prima di scoprire il sindacalista Cesar Chavez e gli scritti di Chomsky mentre a Chicago frequentava l’hub della commedia Second City (da cui sono usciti personaggi come Bill Murray, Dan Aykroyd e Tina Fey).

L’idiota

Poi, dopo il suo primo programma fatto in character, è arrivato il ruolo a cui tutti aspiravano. David Letterman, il grande host democristiano dei programmi serali, a cui decine di presentatori negli anni, anche in Italia, si sono ispirati, è andato in pensione. E Colbert ha preso il suo posto. Quasi un posto da “vecchio saggio” quello dall’Ed Sullivan theatre, a Broadway, dove nel ’64 erano andati i Beatles. Lì, dal 2015, Colbert, che prima faceva un po’, come ha detto lui, «l’idiota», con il suo personaggio, è diventato serio. L’anno in cui è entrato all’Ed Sullivan Theatre ha coinciso con le primarie repubblicane, e con un inaspettato immobiliarista televisivo anti-obamiano che scendendo dalle scale mobili della sua torre di Manhattan ha deciso di buttarsi in politica.

E così, il Late Show, da programma serale con ospiti pop, pur mantenendo la sua anima di intrattenimento A-list, è diventato un programma politico vero e proprio. Guardare un monologo di Colbert era come leggere condensato in dieci minuti il New York Times e il New York Magazine insieme. Era come sentire uno speaker democratico pieno di energia, e quindi mitologico, criticare le politiche e le gaffe Maga, con le battute. Era ciò che un politico d’opposizione non avrebbe potuto fare –  visti il galateo e il moralismo progressista che fanno da freno – uno sfogo dell’anima del “centro sinistra” americano frustrato dalla nuova destra.

Mentre gli altri meno bravi host serali, come Jimmy Kimmel, da Los Angeles, e Jimmy Fallon, dalla scrivania che fu di Jay Leno, imparavano a inserire, spesso goffamente, la politica tra le interviste a Megan Fox e giocatori di basket, Colbert è diventato il maestro. Più composto di Jon Stewart, meno indie di Seth Meyers. Uno zio d’America amato dai Millennial, così diverso dal ridacchiante e fastidioso Fallon che invitò addirittura Trump nel suo show, otto anni fa, quando era già diventato un paria nel mondo progressista, normalizzandolo e scompigliandogli i capelli per far vedere che non erano un elaborato sistema di riporto con specchi e leve per nascondere la calvizie. Negli anni poi Fallon si è scusato per quella leggerezza. Ma né lui né Kimmel, anche se hanno provato a politicizzarsi, sono riusciti a farlo davvero, mescolando clip e qualunquismo. Non di certo come Colbert, che sembra quasi un analista politico prestato alla commedia televisiva.

Una battuta di troppo

Ora il Late Show di Colbert, che andava benissimo, non è stato rinnovato. Il network Cbs ha cancellato Colbert. Dicono che non è per una questione politica, ovviamente, ma una “questione puramente finanziaria”. Certo, i late show e i talk show in generale non vanno bene come una volta, ma quello di Colbert era quello che andava meglio. Ed era diventata un’istituzione. La cosa si può spiegare vedendo i meccanismi dietro. Cbs è di proprietà della Paramount, colosso storico, che di recente ha dovuto sborsare sedici milioni di dollari al presidente Trump che gli aveva fatto causa (per un’intervista montata a suo sfavore a Kamala Harris nei giorni pre elettorali). Tre giorni prima di annunciare la cancellazione del programma il prode Colbert aveva criticato nel suo monologo di apertura questo pagamento, fatto prima di arrivare in tribunale. Un accordo fatto per non avere grane o vendette che Colbert ha definito «una bella tangente», una «mazzetta». «Essendo da sempre un orgoglioso dipendente di questa rete», ha detto Colbert, «sono offeso. E non so se niente riuscirà mai a ricostruire fiducia in questa azienda. Ma, se devo tirare a indovinare, forse 16 milioni di dollari potrebbero aiutarmi».

E invece, Colbert è stato, appunto, cancellato. Bisogna poi aggiungere che Paramount vorrebbe vendersi a Skydance Media, entrando nel gigante della produzione, un’operazione da 8 miliardi di dollari di cui si parla pubblicamente da un annetto. Skydance è di David Ellison, figlio di Larry Ellison, il fondatore di Oracle che ospitò nel 2020 un evento di raccolta fondi per Trump nel suo ranch. “David Ellison è fantastico e farà un ottimo lavoro”, ha detto Trump, benedicendo l’unione tra Paramount e Skydance. Il New Yorker ha definito Colbert, in questa transazione, «un agnello sacrificale per l’amministrazione Trump», un modo perché gli Ellison restino benvoluti a Mar-a-Lago. Colbert, che Trump detesta da anni, è il prezzo da pagare per questo nuovo titano dei media che sta per nascere con l’approvazione della Casa Bianca.

Trump e la tv, amore e odio

Approvazione necessaria per non avere grane. Perché Trump, che ama tantissimo la tv e quindi odia quando è deriso in tv, ha deciso il pugno duro con stampa e, soprattutto, network televisivi. Da quando è tornato, più furente che mai, alla Casa Bianca, ha mostrato i denti, e ha fatto capire che a questo giro non si creerà un secondo partito d’opposizione come nel 2016, dove le “fake news” come le chiamava lui – Cnn & co. – ogni giorno sfidavano la post-truth presidenziali. Il nuovo Trump è più organizzato e combattivo, e ha capito, avendo a che fare con i soft-boy miliardari della Silicon Valley, che anche i giganti storici dei media si possono spaventare parecchio, e che la paura di un attacco frontale con la Casa Bianca (potenziata da maggioranza al Congresso e dalla Corte Suprema e da tutta la “stampa” alternativa dei podcaster Alt-right sempre più mainstream) potrebbe finire in tragedia.

Il minaccioso Trump, dopo aver attaccato verbalmente per dieci anni giornali e network (si potrebbe riempire un libro solo con gli insulti twittati che secondo la Freedom of the Press Foundation sono oltre 3.500), ora fa causa a destra e a manca. Ha capito che molti preferiscono un settlement, un accordo, prima di arrivare davanti ai giudici. E Trump, oltre che uscirne pulito, si arricchisce. Anche questo è un business. Per ora Trump, oltre che alla Cbs, ha fatto causa alla Disney, al Pulitzer Center, al Des Moines Register e all’editore Gannett, perchè scontento di come veniva dipinto o di come sono state raccontate alcune cose. E poi anche al conservatore Wall Street Journal, che a volte l’ha pure appoggiato.

Nuovi amici, nuovi nemici

La scorsa settimana Trump ha fatto causa al mogul che ispirato Succession, Rupert Murdoch, e due giornalisti del suo Journal per aver pubblicato un pezzo sui suoi legami con Jeffrey Epstein. Il giorno dopo i reporter del WSJ non sono stati invitati al viaggio stampa presidenziale in Scozia, come è sempre stata prassi. In passato stessa cosa era successa a quei giornalisti, cacciati per 74 giorni dalla press room della Casa Bianca, per non aver chiamato “Gulf of America” il Golfo del Messico. Il danno di reputazione, come quello di Jeff Bezos dopo aver piegato il suo Washington Post al mondo Maga, è considerato oggi meno pericoloso di quello della battaglia aperta con un Trump sempre più potente e che si accontenta, sembra, per ora, del cash.

E poi ci sono gesti preventivi, di appeasement, dei network, come quelli fatti da Bezos, che fece mandar via dal Post una vignettista e costrinse alle dimissioni vari opinionisti. Msnbc ha cancellato il ReidOut, il programma dell’aspra critica trumpiana Joy-Ann Reid, appena prima un mese che lui tornasse a Washington. E poi va ricordata la cacciata di Terry Moran da Abc News, dopo alcuni suoi post arrabbiati contro Trump e i suoi advisor. «Ho usato deliberatamente un linguaggio forte», ha detto lui, difendendo il fatto che i giornalisti possano essere duri almeno quanto lo sono gli insulti ricevuti dal presidente. In parallelo con i tagli governativi, ci sono però 180 stazioni radio pubbliche che rischiano la chiusura. E Trump ha graziato almeno 13 individui che erano stati arrestati per aver attaccato dei giornalisti il 6 gennaio 2021.

«È un giorno duro per il giornalismo», ha detto lo storico anchor di CBS Dan Rather a Variety, dopo la decisione di Cbs di mettersi d’accordo con Trump. Un comico fastidioso per il regime se ne va per non creare problemi ai padroni del network. Colbert, che non ha nulla da perdere – e che non avrà problemi a trovare un altro lavoro da qualche altra parte – ha detto apertamente a Trump: «Vaffanculo». Un “fuck you” che nella tv puritana statunitense ha un certo effetto. Trump nel Dna mutaforma del suo “movimento politico” ha inserito il primo emendamento, cioè la libertà di espressione, come valore cardine – in modo che il suo popolo di redneck possa dire la n-word liberamente – ma non si ricordano nella storia recente presidenti che si siano impegnati così tanto per mandare via giornalisti e sostituirli con blogger, influencer e podcaster che chiedono deportazioni di migranti e parlano di QAnon e Pizzagate.

Se il trend è questo, al Late Show verrà mandato qualche pseudo-comico obbediente, oppure un pazzo bannoniano convinto che il caso Epstein sia stato organizzato tutto da Obama.

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