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Sinéad O’Connor, una vita intera in un videoclip

Il video di "Nothing Compares 2 U" racconta la carriera della cantante, morta ieri a 56 anni.

di Davide Coppo

Il dolcevita nero le copre anche il collo, cosicché è accentuata la spigolosità di quella mascella di ventitreenne irlandese. Sembra un alieno bellissimo. Le sopracciglia rosse e folte incorniciano due occhi selvatici, azzurri e grigi. Guarda dritta verso di te quando dice: «It’s been seven hours and fifteen days», poi guarda per terra per concludere la parte più dolorosa della frase: «Since you took your love away». Di nuovo verso di te, ma quando deve ripetere «since you took your love away» sposta lo sguardo ancora per terra. Sinéad O’Connor in trentacinque secondi di videoclip, muovendo appena gli occhi e la bocca, ha distrutto il concetto di copyright e si è appropriata di una canzone che originariamente non era sua. “Nothing Compares 2 U”, infatti, non l’ha scritta lei: fu composta da Prince nel 1985, cinque anni prima che lei la prendesse e la rendesse uno dei più indimenticabili capolavori della musica pop.

Pochi artisti al mondo hanno legato la loro opera, e non solo, la loro dimensione direi spirituale, a un videoclip e un singolo come Sinéad O’Connor. Non per sminuire i suoi altri lavori, soprattutto il suo primo disco. Ma quei frame sono diventati icone religiose. È il 1990 quando esce il suo secondo disco, I Do Not Want What I Haven’t Got. A quel tempo i videoclip sono fondamentali per la riuscita di una canzone, perché la musica è approdata in televisione, oltre che in radio, e chi azzecca il video potrebbe beccarsi un successo nazionale o planetario anche se il pezzo cantato non è poi un granché. Non è il caso di Sinéad O’Connor, perché sia la canzone sia il video, per quanto la riguarda, sono pezzi di storia della musica.

È possibile, mi sono chiesto spesso guardando il video, che un’interpretazione sappia superare l’originale? No, non è neanche questo il punto: che un’interpretazione sia in grado, piuttosto, di superare artisticamente l’atto puramente creativo di far nascere un manufatto artistico? Sinéad O’Connor l’ha fatto. È una magia: ha preso la canzone originale, l’ha domata, le ha imposto la sua andatura fino a possederla completamente. Niente di Prince è rimasto in queste parole, in questa musica.

Mancano altri quattro minuti di canzone. Sinéad continua: «Since you’ve been gone I can do whatever I want», e qui chiude gli occhi e volge il volto da un lato, sembra una rivendicazione, è un gesto di rabbia. C’è di nuovo quella tristezza mentre mormora: «I can see whomever I choose». Torna la rabbia quando alza la voce per affermare e affermarsi: «I can eat my dinner at a fancy restaurant!», e le trema la mascella, gli occhi sono di ghiaccio. Sinéad O’Connor forse non era abituata, all’epoca, ai ristoranti eleganti. I suoi genitori si sono separati quando lei aveva nove anni. Negli anni Ottanta l’Irlanda non è uno dei Paesi più ricchi d’Europa, per usare un eufemismo. Lei giocava a hockey a scuola, ma faceva apposta a dimenticarsi la mazza e non portarla a casa, scriverà nella sua autobiografia, perché la madre non la picchiasse con quella. Eppure questa canzone d’amore di Prince, lei, la canta pensando a sua madre. È anche per questo che le emozioni sul suo volto si fanno sempre più complesse al primo ritornello.

Quando dice finalmente «nothing compares to you» guarda in camera, ma non c’è amore nello sguardo, solo il senso di una perdita. Sinéad ha 18 anni quando la madre, che ha descritto come «physically and mentally abusive», muore in un incidente d’auto. Di nuovo le trema leggermente il volto. La voce va su e giù: ha detto che nel videoclip cantava utilizzando la tecnica del “belcanto”, è uno stile italiano che risale al Sedicesimo secolo. Significa passare agilmente da note gravi a note acute, è un tipo di recitazione che è evidente dalle valli profonde e dalle vette altissime che prende la sua voce. Un virtuosismo. Lei l’ha paragonato al metodo Stanislavskij del cinema: quello per cui non basta far percepire l’emozione al pubblico, ma serve provarla tutta in prima persona.

Le pieghe della bocca si inarcano all’ingiù in una smorfia di disprezzo quando dice: «I went to the doctor, guess what he told me», e ripete: «Guess what he told me». Il dottore le dice di divertirsi, di non fregarsene troppo. Ma è uno scemo, dice lei. Perché niente si può paragonare a te. L’ultima strofa parla esplicitamente di una madre. «All the flowers that you planted mama / In the back yard / All died when you went away». È qui che il metodo Stanislavskij si accende del tutto: Sinéad O’Connor inizia a piangere. Dirà poi che erano lacrime vere, che non voleva piangere ma non poteva controllarlo. La strofa sembra disegnata per lei, anche quando si conclude con un finale che sembra di perdono: «I know that living with you baby was sometimes hard / But I’m willing to give it another try».

Ci saranno poi altri dischi, e anche altri singoli da numero uno negli Stati Uniti. Due anni dopo, nel 1992, strappa una foto di Giovanni Paolo II in diretta televisiva negli Usa e si becca addirittura gli insulti di Madonna. Ma niente sarà mai come quella canzone unita a quel video. Nel 2019 al Late Late Show, superati i 50 anni e dopo una conversione all’Islam, Sinéad O’Connor torna a cantare “Nothing Compares”. È di nuovo un’esibizione da brividi. Il suo volto è comunque incorniciato, ma dal khimar e non dal nero dello sfondo, la sua pelle ha trent’anni di più. Questa volta tiene gli occhi di ghiaccio chiusi a lungo, anzi non li apre mai, per tutta la durata della canzone, per cui non si capisce quanto sia cambiato il colore delle sue iridi. Sembra guardarsi dentro, forse per cercare di vedere quei trent’anni di distanza, quella vita difficile che l’aveva portata fino a lì, vestita di un khimar rosso sul suo viso irlandese in una tv americana. Quando le dissero che “Nothing Compares 2 U” era diventato numero uno negli Stati Uniti lei non era felice, ha raccontato. Anzi, pianse «come una bambina alle porte dell’inferno».