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08:07 martedì 11 novembre 2025
Dopo il flop di Megalopolis, Francis Ford Coppola è così indebitato che ha dovuto mettere in vendita la sua isola caraibica privata Dopo un orologio da un milione di dollari, Coppola è stato costretto a rinunciare anche all'isola caraibica di Coral Caye, suo ritiro estivo.
Si è scoperto che il Fedora Man, l’elegantissimo uomo fotografato il giorno della rapina al Louvre, è un 15enne che si veste sempre elegantissimo Non un giornalista né un detective né un cosplayer né un buontempone: Elias Garzon Delvaux è solo un ragazzo a cui piace vestire elegante e visitare musei.
Lo scandalo che ha portato alle dimissioni dei capi della Bbc ricorda molto la trama di The Newsroom 2 di Aaron Sorkin Il video manipolato di un discorso di Donald Trump ha portato alle dimissioni del direttore generale Tim Davie e della Head of News Deborah Turness.
Alla COP30 non ci saranno i leader di Stati Uniti, Cina e India, cioè dei tre Paesi che inquinano di più al mondo Alla Conferenza sul clima di Belém, in Brasile non ci saranno né Trump né Xi né Modi: la loro assenza, ovviamente, è un messaggio politico.
Un imprenditore ha speso un milione di dollari per promuovere una collana AI a New York e tutte le sue pubblicità sono state vandalizzate Avi Schiffman voleva far conoscere il suo prodotto ai newyorchesi. Che gli hanno fatto sapere di non essere interessati all'amicizia con l'AI.
Stranger Things sta per finire ma ricomincerà subito, visto che Netflix ha già pronto lo spin-off animato S’intitola Tales From ’85 ed espande la storia ufficiale tra la seconda e la terza stagione, riprendendone i personaggi in versione animata.
Gli azionisti di Tesla hanno entusiasticamente approvato un pagamento da un bilione di dollari a Elon Musk  Se Musk raggiungerà gli obiettivi che l'azienda si è prefissata, diventerà il primo trillionaire della storia incassando questo compenso da mille miliardi.
Nel primo trailer de La Grazia di Paolo Sorrentino si capisce perché Toni Servillo con questa interpretazione ha vinto la Coppa Volpi a Venezia Arriverà nella sale cinematografiche italiane il 15 gennaio 2026, dopo aver raccolto il plauso della critica alla Mostra del cinema di Venezia.

Senza anestesia

L'autoritarismo post-Soviet, il miracolo economico farlocco. Basta dare uno sguardo alla scena musicale per capire che in Bielorussia c’è poca voglia di stare zitti.

10 Dicembre 2012

In Bielorussia l’antipolitica è imposta dalle contingenze. Da queste parti la politica puzza di apparatchik sovietico lontano un miglio. Ovvio che anche i dissidenti tendano a prenderne le distanze. Demistificando. Dissacrando. Reinventando forme di partecipazione politica, come le proteste senza slogan della scorsa estate, ideate per non incappare nelle disposizioni repressive emanate da questo avanzo di politburo tenuto in piede dal regime di Aleksandr Lukashenko.

Questo non è un paese anestetizzato. Tutt’altro. Diciotto anni di potere assoluto di un presidente sinistramente ribattezzato, “batska”, padre, non hanno piegato la dissidenza. Uno zoccolo duro che unisce i ventenni nati e cresciuti sotto il regime, ai quarantenni illusi dalla sbornia della perestrojka e traditi dalla corsa verso quella democrazia bloccata sul nascere nel luglio del 1994, quando Lukashenko è stato eletto presidente. Altro che glasnost. Da allora, questa icona dello stalinismo d’antan che tanto furoreggia nello spazio politico post-sovietico, ha consolidato la sua posizione delegittimando il parlamento, zittendo i media non allineati e imponendo una riforma costituzionale che gli ha garantito l’eleggibilità senza limite di mandato. La virata definitiva del paese verso l’autoritarismo duro e puro.

Ad oggi, il presidente di mandati ne ha collezionati quattro. Il suo ultimo trionfo da 80% di consensi, quello delle elezioni del 2010, si è chiuso nel sangue. Quando i manifestanti si sono riuniti davanti al parlamento per protestare contro una vittoria bollata dagli osservatori dell’Osce come illegittima, la milizia ne ha rastrellato e incarcerato più di 800. Da allora il pugno di ferro su tutta la produzione culturale anti-establishment ha toccato un punto di non ritorno.

Eppure, le intimidazioni ai dissidenti, i raid del Kgb nelle redazioni dei giornali, gli editti contro le band antigovernative non l’hanno spuntata e il panorama del dissenso continua a crescere. Negli ultimi due anni flash-mob e sit-in organizzati tramite V-Kontact, il Facebook russofono, hanno visto per la prima volta scendere in piazza la gente comune. Babushke e nipoti a cui la crisi economica globale ha sbattuto in faccia l’essenza farlocca del “miracolo bielorusso” basato sulla statalizzazione dell’economia nazionale, uniti contro il regime. Stritolato da un’inflazione in caduta libera e da un debito pubblico al 63%, il tassello chiave del consenso al regime, il welfare state in Lukashenko style, fatto di salario minimo garantito e accesso universale a istruzione e sanità è saltato. Di qui le proteste dello scorso luglio, che banale a dirsi, sono state soffocate con modalità prevedibili: 500 arrestati e black-out dei siti web di organizzazioni come Charter 97Free Belarus.

Eppure basta dare uno sguardo alla scena teatrale o musicale per capire che c’è poca voglia di starsene zitti. Testi onirici e surreali, metafore evocative sono gli espedienti utilizzati per arginare la censura e raccontare cosa significhi vivere in un clima di repressione permanente. Gli stessi che hanno reso celebre il Belarus Free Theater, compagnia invisa al regime e riparata a Londra, che storce il naso quando gli si affibbia l’etichetta di teatro politico. Il loro messaggio, del resto, è inequivocabile: meno politica, più informazione. Che tradotto in azionesignifica raccontare in pièce, musica o versi, la violenza di stato, l’espulsione degli studenti dissidenti dalle università, le carcerazioni preventive. Cose lontanissime dalla politica fatta di sproloqui raccontata dalla televisione di stato.

Una linea condivisa anche da band come i N.R.M, (Repubblica Indipendente del Sogno) il cui primo album è del 1994, l’anno in cui Lukashenko sale al potere e vara la black list governativa dei dissidenti. Il loro leader, Liavon Volsky, figlio del poeta dissidente Arthur, l’aveva raccontato nel 2007. Da queste parti per annullare un’esibizione, basta la telefonata intimidatoria di un funzionario di governo agli organizzatori. Per questo, le jam session improvvisate in cantine scalcinate, l’autoproduzione, la distribuzione clandestina degli album all’estero sono diventati la norma.

Ai Lyapis Trubetskoy, il più popolare dei gruppi off, è andata peggio. Dal 2011, un mandato d’arresto per “diffamazione della nazione” attende in patria il frontman del gruppo, Sergey Mikhalok, ora nascosto a Mosca. Per Lukashenko e i suoi, però, la sua messa al bando è stata un boomerang. L’esilio oltreconfine è valso la celebrità globale e così Mikhalok è diventato un’icona dissidente – l’ennesima in stile Pussy Riots – celebrata nei circuiti underground di tutta Europa. Del resto come poteva essere altrimenti? Dismesse le vesti punk degli esordi, oggi, questo quarantenne belloccio e ultra-tatuato non spacca chitarre, ma declama Vladimir Majakovskij ad apertura di ogni concerto. Entrée intellectual-chic da appendice, si dirà, ma intanto a Minsk, Vilnius o Varsavia pezzi come “Belarus Freedom” sono diventati cult che animano le serate agitpop della dissidenza espatriata.

“Questo tipo è stupido come una scimmia con una corona in testa”, cantano i Lyapis. Superfluo precisare chi sia la scimmia – che però, tanto stupida non pare, se come sembra, è riuscita a sguinzagliare alle calcagna dei vessati artisti un apparato di sorveglianza da guerra fredda. Un accanimento che Mickalok interpreta in modo messianico: “È il ritorno del sistema stalinista dei gulag. Lo puoi vedere in Russia, in Bielorussia, in Ucraina. Artisti, poeti e musicisti dovrebbero essere i primi a reagire e a far scattare l’allarme” ha dichiarato al St Petersburg Times. Detto fatto. La sua Graj è diventata la canzone manifesto di chi al regime dice no. “Anche se adesso i tempi sono bui e spaventosi, ritornerà la Primavera nella nostra terra” canta. Sarà. Ma, vista da qui, la Primavera sembra più lontana che mai.

(In alto: foto di SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images) (sotto: foto di ER Petrillo)
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