Praticamente e psicologicamente è un’esperienza rischiosa e incerta. Ce l’ha spiegato José Nivoi, portuale e sindacalista, attivista del Calp e membro dell’equipaggio salpato da Genova e diretto in Palestina.
Le manifestazioni sono sempre illusioni. Ritrovarsi in strada assieme a centinaia, a migliaia di persone per sostenere la stessa causa costringe chiunque a dubitare delle ciniche convinzioni che ci siamo dati per sopravvivere in questo mondo brutto: a nessun importa più niente di nulla, la speranza è per i fessi e i perdigiorno, nemmeno i poeti credono più che ogni uomo possa contribuire al potente spettacolo con un verso. Nelle manifestazioni però ci si guarda attorno, ci si ritrova circondati da altre persone affini almeno in quel momento ed è inevitabile chiedersi: tutto questo dovrà pur contare qualcosa, no? Tutti noi dovremmo pur contare qualcosa? Probabilmente no, non conta nulla, non contiamo nulla. Ma questo non toglie il fatto che una manifestazione abbia un significato, a prescindere dalle sue conseguenze, dai suoi effetti sul mondo, dal contributo “reale” (ma che cos’è un contributo reale, poi) che porta alla causa.
In questi casi si parla di gesti simbolici, lo abbiamo fatto anche io e i miei colleghi di Rivista Studio nel comunicato con cui annunciavamo la nostra decisione di aderire allo sciopero generale del 22 settembre. Non c’è un’espressione più giusta per definire quello che è successo ieri, ma allo stesso tempo non ce n’è nemmeno una più fraintendibile e quindi più dannosa: si scrive simbolico ma si legge inutile. O almeno, tanti leggono inutile. È una discussione che abbiamo fatto anche tra di noi, in redazione, prima di decidere di scioperare: “che senso ha?“, ci siamo chiesti. In che modo uno sciopero qui può avere un qualsivoglia effetto lì? Che speranza hanno centinaia, migliaia di persone in una provincia come l’Italia di smuovere l’oggetto inamovibile che è la geopolitica dei nuovi imperi che hanno deciso di spartirsi il mondo? In queste discussioni si arriva sempre a una domanda che negli ultimi due anni per tanti è diventata una questione esistenziale: allora perché facciamo quello che facciamo? E per chi, soprattutto?
Per me è dolorosissimo ammettere di non serbare più nessuna speranza né per la Striscia di Gaza né per i gazawi. So che quella parte di mondo non esisterà più in futuro e che per il resto della mia vita dovrò convivere con la consapevolezza di aver assistito – in tutte le peggiori accezioni che questa parola può assumere – a questa cancellazione . So che dovrò continuare a vedere i volti, a leggere le parole, a subire le decisioni di chi alla brutalizzazione della Palestina ha scelto di contribuire in un modo o nell’altro. So che me ne starò a guardare mentre Gaza viene fatta Riviera, che nel mio feed scorreranno le foto dei decrepiti Trump e Netanyahu che posano assieme la prima pietra della Trump Tower locale, in cui un poligono di tiro sarà intitolato a Itamar Ben-Gvir e una sala bingo a Bezalel Smotrich. So tutto questo, come so che lo sanno tante altre persone, per le quali la distruzione di Gaza segna la rottura del contratto sociale: da adesso in poi ognuno per sé, fino alla fine del mondo, perché l’altra cosa che tutti sappiamo è che Gaza è soltanto l’inizio. Pur sapendo tutto questo, ieri ero alla manifestazione di Milano assieme a tante altre persone (i numeri non sono importanti, i numeri servono solo come argomento di discussione per chi non c’era). E al di là della liturgia del corteo, dei cori a squarciagola e della luce dei bengala e degli strali contro la repressione e dei cartelli-meme con la faccia sconvolta di Enzo Iacchetti, mi sono reso conto che queste consapevolezze mi hanno ormai infiltrato.
Il successo dello sciopero del 22 settembre è per me il trionfo della disperazione, di persone che non sanno più cosa fare né dire, ma che non tollerano più il non sapere cosa fare né dire. È per questo che a tenerci tutti assieme in questi momenti non è stata la speranza (figuriamoci) e nemmeno la rabbia, ma la necessità di trovare tutti assieme un modo di abitare questo dolore, di sopravvivere al terrore che sentiamo muoversi nel buio del futuro: come racconteremo quello a cui abbiamo assistito in questi due anni? Cosa faremo e diremo quando succederà di nuovo? Come ci assolveremo? Come sopravviveremo?
È vero quello che tanti sostengono in queste ore: una manifestazione non serve a nulla. Nessuno meglio di chi era in strada ieri sa che il governo Meloni non cambierà certo la sua politica estera dopo quello che è successo ieri (anzi, la disinfo op è già partita, tra città “devastate” e 88enni che perdono il treno per Scalea per colpa dello sciopero). E anche se lo facesse e riconoscesse lo Stato di Palestina come nel fine settimana hanno fatto Regno Unito, Canada, Australia, Francia, non sarebbe anche questo un gesto simbolico? Ma a me, e a molte altre persone come me, ormai non resta nient’altro che questo. Per quanto disprezzabile ed egoistico possa essere, so di non poter fare quasi niente per salvare i palestinesi, anche solo un palestinese, dal destino di annientamento che è stato deciso per loro. Il vuoto che questa consapevolezza ha aperto dentro di me, un vuoto di cui sono certo esiste una copia in tantissime persone in tutto il mondo, posso riempirlo in parte solo con la consapevolezza di avere ancora la capacità di riconoscere la cosa giusta da fare, anche se simbolica, anche se irrilevante, quando si presenta l’opportunità di farla. E poi di farla, com’è successo ieri.