Noi a Sanremo tiferemo per Sayf

Padre italiano, madre tunisina, una vita tra Rapallo e Genova, non riesce a scegliere chi preferisce tra Bob Marley e Fabrizio De André, ma soprattutto è una delle più interessanti novità del rap italiano: la nostra intervista dal numero di Rivista Studio.

01 Dicembre 2025

Sayf è una delle voci più autentiche e sorprendenti della nuova scena rap italiana. Nato e cresciuto a Genova, padre ligure e madre tunisina, ha costruito un percorso che mescola radici, vissuto personale e una continua ricerca musicale. Dal freestyle alle prime produzioni indipendenti, fino ai progetti più recenti e quelli futuri – ha appena annunciato il Santissima Fest 2026 – il suo stile unisce l’immediatezza del rap con aperture melodiche e racconti che oscillano tra introspezione e quotidianità. Con il nuovo singolo “UNA CAN” ha confermato la sua crescita e una traiettoria artistica tutta da seguire. 

Tu sei ligure e abiti nei dintorni di Genova, come vivi l’invasione di persone da tutta Italia per l’estate?
È un argomento tosto questo, ci sono tante sfaccettature. Personalmente mi piace, soprattutto da più piccolo mi teneva vivo: d’inverno questi posti sono un po’ morti, e aspetti l’estate per vederli ravvivarsi. Penso anche per i lavori, io ho sempre lavorato stagionalmente. È ovvio che poi si sviluppa una dinamica di amore e odio, perché vieni comunque un po’ violato, per certi versi, nella tranquillità. È un compromesso. Se vai in giro per Genova, leggi anche scritte sui muri “tourist go home”. Però non lo so, mi hai fatto una domanda veramente complessa, non mi sento un sociologo per poterti rispondere.

Tu sei stato a Genova, poi sei andato a Milano e poi sei tornato a Genova. Cosa ti ha lasciato l’esperienza di Milano?
È stata veramente breve e viziata anche dalla quarantena, però diciamo che l’ho comunque assimilata sia prima che dopo, ci torno spesso. Quello che mi ha lasciato sono sicuramente tante cose positive, le persone che ho incontrato e la sensazione di poterci fare tanto: è un mondo molto aperto e disponibile. Mi ha fatto anche capire da dove vengo e cosa mi fa stare tranquillo, ovvero la zona che va da Rapallo a Genova, più o meno. Questo pezzo di terra, questo tipo di vita, queste persone.

Tu però non sei stato propriamente a Milano ma a Sesto San Giovanni, giusto?
Sì, era la terz’ultima della rossa, cioè Sesto Rondò.

Io sono di Monza e immagino un ragazzo che viene da Genova, con il mare perennemente di fronte, che approda Sesto San Giovanni: lo stacco è fortissimo.
A me Sesto Rondò ha sempre ricordato Rapallo, però senza il mare. Perché poi Rapallo nella parte interna non è che sia chissà quanto bella o artistica. Non so se conosci il termine “rapallizzazione”. Significa deturpare i paesaggi, costruire a caso: abusivismo edilizio. È una parola che esiste sul dizionario e deriva appunto da questo fenomeno; che poi è quello che non mi piace esteticamente anche di Milano. Non c’è una coerenza estetica, vedi le case che hanno le piastrelle, poi certe sono colorate marroni, altre sono carine, altre ancora sono dei pugni negli occhi.

Io ti ho ascoltato quest’anno per la prima volta, però tu fai musica da tanti anni, in un’intervista hai dichiarato che sei partito addirittura dal freestyle. Volevo chiederti cosa ti rimane di quell’approccio.
Tanto, sicuramente la velocità di pensiero, il doverti adattare alle situazioni e ai beat; ti lascia la reattività e la capacità di “surfare”. Poi, per carità, vengo dal freestyle, sì, ma dalle battle fatte con gente a caso, non ho mai fatto dei tornei tosti.

E questo approccio versatile sei riuscito a trasportarlo nella tua musica?
Per me sì, un po’ ti rimane. Per forza. Ma secondo me questo è un principio che c’è in altri generi, l’avevo visto anche in un video di Pino Daniele, più o meno l’approccio mi è sembrato quello: partire dall’improvvisazione.

Ieri sera ho ascoltato il tuo ultimo progetto, gli ultimi singoli, e “Everyday Struggle”, che è di cinque anni fa. La prima cosa che ho notato è stata un’evoluzione nella scrittura, che mi è sembrata molto più precisa. È una cosa in cui ti rivedi?
Sì, sono d’accordissimo. Come in tutto, si impara. Io devo tanto a un mio caro amico che rappa, Guesan di Wild Bandana. Io e lui, mentre facevamo quel disco, eravamo in casa a Sesto Rondò – dove abbiamo passato la quarantena insieme a Zero Vicious – mi ha aiutato tanto a capire come si scrive, come far arrivare i concetti. Non ci sono delle regole e il mio modo è diverso dal suo, però il suo modo di scrivere mi ha fatto capire tanto, come anche quello di Vaz Tè: non andare troppo di getto, perché l’istinto può essere bello, emozionante, ma non è detto che sia così intelligibile.

Nel disco di qualche anno fa eri ancora, passami il termine ma è giusto per capirci, molto legato alla scuola Wild Bandana, mentre adesso hai trovato una tua formula.
Io in quel momento ero costantemente con loro, soprattutto con IZI, perché stava in Bovisa: mi ha ospitato tanto, mi ha dato una mano prima e dopo essere stato a Sesto. Quindi era un’influenza umana e poi nella musica. Ho sempre guardato a lui e a Wild Bandana con rispetto e con ammirazione, è stato naturale provare ad andare per quei canali. La musica, l’arte in generale, soprattutto all’inizio, è tanto imitazione, provare a vedere se riesci a ricreare quello che ti piace, per poi capire che cosa muove te, invece.

Come hai fatto poi a sganciarti e trovare la tua voce?
È stato naturale. Non penso di averlo ancora capito del tutto ma ho capito cosa mi piace, in che frequenze mi piace sentire la mia voce, questo o quell’altro. Però è stato e sarà un grande lavoro di sperimentazione: provare, diversificare costantemente, finché trovi quello che magari ti viene meglio, più facile o che ti mette più a tuo agio.

Ascoltando la tua musica, soprattutto l’ultima, diciamo che nella mia testa si divide un po’ in due grandi aree. Da una parte c’è uno storytelling di strada molto forte; dall’altra ci sono dei pezzi, mi viene da dire pop, popolari ma nel senso bello del termine. Volevo chiederti se sono due cose che fai allo stesso modo oppure se c’è una differenza di approccio tra una e l’altra.
Io li faccio sempre allo stesso modo. Ogni canzone penso sia una fotografia di un momento, quindi in base a come stai emotivamente, racconti qualcosa o qualcos’altro, o anche la stessa cosa ma in modi diversi. Per me è veramente sempre lo stesso approccio, influenzato da quello che sento e da come mi sento.

Volevo chiederti di due cose che mi hanno molto colpito. La prima è la tromba, ho visto le clip del live al Santeria quando l’hai suonata. Come hai iniziato?
A me fa piacere, ma ti dico la verità, non sono un grande trombettista. L’ho imparata alle medie perché ho avuto la fortuna di poter scegliere di imparare a suonare uno strumento a scuola. Mi è sempre piaciuto suonarla anche se poi mi ha stancato, perché poi o studi le partiture o suoni quelle che sai – a meno che non impari a improvvisare e a creare. Ho iniziato a usarla un po’ in studio – in “CHANELINA SOUBRETTE” il campione della tromba l’ho suonato io, per dire – cose piccole nelle produzioni. Poi era uscita questa idea durante Real Talk, anche se poi il format è uscito dopo il live di Santeria in realtà era nato prima, e allora abbiamo pensato di chiudere con la tromba perché si adattava col fatto di dire “le barre le ho fatte tutte e adesso suono una tromba”.  È una melodia abbastanza semplice, sono poche note tutte insieme, però mi rendo conto che possa essere una cosa particolare.

L’altra cosa che mi ha colpito è che ti piace il reggae. Come nasce questa passione?
Nasce con un gruppo di amici all’inizio, quando avevamo 12 anni, ascoltavamo i Mellow Mood e Alborosie. Ho iniziato a cercare, a sentire tutto: reggae, roots, ma anche le cose nuove che uscivano in Jamaica; che poi è quello che mi ha portato a 15 anni a farmi i dread perché, non voglio minimizzarlo, il fatto di essere arabo di seconda generazione – anche se io non sono propriamente una seconda generazione, sono un mix – non era un fattore di vanto o di moda come può essere in questo momento, ma si veniva discriminati. E io mi ricordo che da piccolo, purtroppo, non era una cosa bella, ne avevo vergogna. Anche con mia madre, magari parlavamo e dicevo, “oh dobbiamo imparare l’italiano perché siamo in Italia”. Invece il reggae ti dava un po’ di quell’orgoglio di fronte alle tue origini.

Tu appunto hai genitori italiani e tunisini. Ma la cosa che a me ha un po’ colpito era che passavi l’estate in Tunisia, che mi ricorda molto una cosa che fanno alcuni amici, colleghi o ex compagni delle scuole, che avevano origini del sud Italia e quindi passavano tutta l’estate dai parenti, chi in Sicilia, chi in Calabria. Mi racconti qualche tuo ricordo?
Mio papà è italiano di Genova, ma io ho la maggior parte dei parenti in Tunisia, perché mia madre ha otto tra fratelli e sorelle. Anche se pure dalla parte di mio padre, sono comunque in sei. Però in Tunisia poi ho molti più cugini e molta più famiglia. Dal momento che mia madre viveva in Italia, era normale andare lì. Quando non si poteva magari stavamo una settimana o due; ma quando si riusciva anche uno o due mesi. Noi non abbiamo mai avuto una casa nostra lì, quindi ogni volta scendevamo e andavamo a fare il giro di saluti da tutti i parenti. Tre giorni da uno, una settimana dall’altro, un giorno da questo, un giorno dall’altro.

Featuring dei sogni, Bob Marley o De André?
Mi hai messo in grande difficoltà, ma io evaderò dicendoti che non puoi scegliere tra mamma e papà.

Immagine dal video di “Facciamo metà“.

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