Stili di vita

Tovagliette — Sardine marinate

In cucina il bianco è il colore dell’arroganza e del terrore, ma se non è l'abito a fare il monaco, la tenuta dello chef spesso sottintende significati nascosti.

di Tommaso Melilli

Si favoleggia che le pieghe della toque, il cappello da chef alto, bianco, lungo e un po’ ridicolo, siano tassativamente cento: sono l’emblema dei cento modi di cucinare un uovo che un grande chef deve conoscere. (Detto in nota, nessuno è mai riuscito a fare una lista verosimile di questi cento modi). Ci sono i grandissimi chef, quelle star internazionali che in realtà non cucinano mai, che vestono di un bianco incandescente, senza grembiule o altri orpelli. Ci sono poi le grandi brigate dei ristoranti stellati, anch’esse in bianco, dal commis fino all’executive chef. In cucina si hanno sempre le mani sporche, ci sono cose che schizzano dappertutto, alcune delle quali molto calde: razionalmente, vestirsi di bianco non è una buona idea. E invece il bianco, lungi dal significare igiene e pulizia, è il colore dell’arroganza e del terrore: sarai vestito di bianco, perché se sei bravo non ti sporchi.

Ma col tempo, la ruota della fortuna della coolness ha girato e creato mitologie alternative. I cuochi e le cuoche dei neo-bistrot parigini alla moda (quelli che poco più di dieci anni fa hanno cominciato a rifiutare proposte in grandi hotel stellati per aprire piccoli ristoranti nei quartieri storicamente più poveri di Parigi) non hanno cappelli, pantaloni sale e pepe, né giacche: lavorano in maglietta, coi capelli arruffati, e le scarpe da ginnastica. L’unico segno di riconoscimento è un immancabile grembiule, leggero e sgualcito, di un ruvido cotone blu che ricorda le tute da idraulico. Una tenuta che sottintende una certa superiorità estetica della classe operaia, come a dire: “Non abbiamo i soldi per permetterci i vestitini graziosi, ma soprattutto non abbiamo il tempo per pensarci, perché noi siamo quelli che cucinano sul serio”. Alcuni produttori di abbigliamento professionale da cucina hanno anche cercato di inseguire l’onda, lanciando linee di giacche, pantaloni e grembiuli in denim, a volte venduti già sbertucciati: l’operazione, com’è facile immaginare, è miseramente fallita.

Ho esitato a lungo sulla mia tenuta ideale da lavoro, attanagliato da una parte dalla frugalità e dalle gioie dell’appartenenza a una corrente contemporanea, e dall’altra dall’effetto rassicurante, autorevole e spettacolare della giacca bianca. D’accordo che l’abito non fa il monaco, ma se prima di parlare con una qualche divinità ti ricordi di vestirti da monaco sarà più facile credere che il dio in questione ti stia ascoltando.

Il fatto è che con la giacca fa caldo. A volte si suda come dei pazzi, e – curiosamente – si suda indipendentemente dalla temperatura esterna: non sempre, ma capita d’estate come d’inverno, senza una logica climatica. Altre volte, come per magia, si sta benissimo. Ma forse non sudi perché fa proprio caldo: sudi perché ti agiti. La giacca non serve tanto a sentirsi dei veri chef, non tanto a proteggersi dalle ustioni (tanto ci si ustiona lo stesso): la giacca serve a ricordarsi di stare calmi.

Ecco, Michele Farnesi è uno chef che cucina con la felpa. Uno chef italiano che, a 26 anni, ha lavorato nelle cucine più importanti d’Europa, fa la pasta in un modo talmente sconvolgente che fra vent’anni parleremo di come si faceva la pasta prima e dopo di lui e ha un ristorante pluripremiato a Parigi di cui parlano tutti. È, in breve, tutto quello che la mia psiche mi ricorda che sarei potuto diventare se non avessi procrastinato, o se non passassi la metà del mio tempo a scrivere ricette.

Michele è di Lucca, ha le braccia tatuate e dice che i clienti fastidiosi sono gente a cui «gli scoreggia il cervello». La prima volta che ho mangiato al suo ristorante c’era un carciofo farcito con le cozze e il midollo di bue (cosa che in francese produce un divertentissimo gioco di parole, perché le cozze si chiamano moules e il midollo si chiama moelle: non ho avuto il coraggio di chiederglielo, ma sospetto che quell’accostamento gli sia venuto in mente perché non riusciva a pronunciare diversamente quelle due parole quasi uguali).

Sono andato a trovarlo un paio di settimane fa dopo il servizio del pranzo perché eravamo d’accordo per cucinare insieme una cosa semplice: dopo aver bevuto due birre ciascuno abbiamo deciso che le sardine marinate erano abbastanza semplici. Ovviamente mi sbagliavo.

Prendete dei piselli freschi, al mercato. Spezzate la punta del baccello e strappate il filamento che si staccherà con essa, poi sbollentate i baccelli interi per 5 minuti, poi passateli in acqua ghiacciata. A questo punto li scolate e frullate tutto. Sì, anche i baccelli. Potete anche assaggiarli, sanno tantissimo di piselli. Aggiustate di sale e poi, se avete voglia di lavorare come dei veri chef, potete anche passare la vostra vellutata in un colino cinese, e vi sarete sbarazzati anche dei piccoli filamenti di baccello.
Mentre io pulivo i piselli Michele ha grigliato 12 teste di maiale e il suo sous-chef faceva il brodo di pesce per un risotto con le seppie, cedro e borragine.

Pulite le sardine: con le forbici tagliate la testa e fate un taglio lungo la pancia, poi apritele “a libro” con le dita, togliete la lisca e le interiora, poi rigirate la sardina e, con estrema delicatezza, strappate la pinna dorsale, cercando di non separare i due filetti (poi intendiamoci, se anche si separano son buone lo stesso).

E qui viene il bello. Disponete le sardine che avrete asciugato con uno straccio pulito su una teglia o un piatto molto grande e spolverate il tutto con sale e zucchero. Rigiratele dall’altro lato e spolverate di nuovo. Aspettate dieci minuti e poi sciacquatele.
(È come fanno i giapponesi col sushi: uno si chiede ma com’è possibile? anche nei peggiori ristoranti di sushi il pesce è succoso e saporito, si mastica, e invece quando compri il tonno al mercato è duro e fibroso e se lo mangi crudo non sa di niente. Sale e zucchero).

Riasciugate le sardine con lo straccio e preparate la macinatura: due parti di succo di limone, una parte di “olio bòno”, cipollotto, sale a gusto, qualche grano di pepe e foglie di coriandolo. Frullate tutto a lungo col minipimer: otterrete una sorta di vinaigrette che, non vi so dire perché, saprà vagamente di piselli freschi. Versate la vinaigrette sulle sardine e aspettate mezz’ora.
Nel frattempo grigliate dei cubetti di pane (Michele dopo averlo grigliato l’ha anche immerso per pochi secondi in un brodo ricavato facendo bollire piano piano delle sardine precedentemente tostate in forno per un’ora, ma magari noi questo passaggio lo lasciamo perdere).

Mettete nel piatto il pane, un paio di sardine, due gocce di vinaigrette e un cucchiaio della crema di piselli di prima.
Poi c’era della polvere di cipolla bruciata, c’erano dei germogli di piselli e dei fiori di rucola, e altre due o tre cose che temo di non ricordare. Ah, dimenticavo: in vari passaggi della preparazione abbiamo aggiunto un ingrediente segreto. Michele mi ha detto di non scriverlo, ma se siete di passaggio a Parigi e andate a mangiare da lui potete provare a chiederglielo.

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