Cultura | Polemiche
Siamo sicuri che quella su Roald Dahl sia davvero censura?
La decisione di "correggere" i testi dello scrittore rimuovendo parole ritenute offensive ha fatto esplodere una guerra tra chi ritiene il fatto una prova della dittatura del politicamente corretto e chi la considera una semplice decisione legata al mercato editoriale.
In questi giorni la comunità letteraria è fortemente divisa in merito alle modifiche che i libri di Dahl hanno ricevuto. Ho cercato di riassumere, in modo un po’ schematico, le posizioni di chi ritiene che si possano operare piccole modifiche ai suoi racconti. Soprattutto se si considera il pubblico a cui queste storie sono rivolte e la funzione sociale che hanno i libri per l’infanzia di così ampia diffusione. Soprattutto se chi ne fruisce lo fa senza l’intermediazione di insegnanti, educatori e genitori; se si tratta delle prime letture in solitaria. Per la natura di questo intervento non è possibile approfondire ogni posizione affrontata. Nessuno desidera cancellare dalla faccia della terra il Dahl “originale” merce che, nel corso del tempo, è stata comunque soggetta a numerosi rimaneggiamenti, mediazioni editoriali, modifiche. Così come di polemiche (che durano da decenni). Ho raccolto, grazie a una lunga discussione con i miei contatti, alcune riflessioni e desidero ringraziare tutti quelli che vi hanno preso parte. Spero che questa “insalata” possa rappresentare un punto di partenza, un innesco.
Dahl scriveva ottimi libri per l’infanzia (libri apprezzabili a ogni età). Questi titoli rientrano oggi nella categoria merceologica 6+. Significa che una persona dai sei anni in su dovrebbe poterne affrontare la lettura con un minimo ausilio da parte degli adulti. È lo stesso spazio letterario delle fiabe, di alcuni racconti illustrati. Imparare a leggere da soli è importante, è un questione tra giovane lettore e libro: Dahl potrebbe essere questo punto di partenza. Gli interventi che hanno riguardato i suoi racconti sono stati operati di comune accordo con chi ne detiene i diritti e con gli eredi (è il capitalismo e stiamo parlando di merce e vanno proprio nella direzione di garantire a Dahl di non perdere quote di mercato). In questa prospettiva le opere, una sorta di patrimonio comune (ci torneremo), ha conosciuto aggiornamenti, questi aggiornamenti sono dovuti dal mutare della sensibilità moderna.
Non sarebbe stato sufficiente pubblicare questi libri per bambini con note a piè pagina e apparati critici, le pubblicazioni che sono rivolte a questa utenza non le contemplano; queste variazioni (limitate) consentono a una eterogeneità di giovanissimi – di ogni parte del mondo – di poter attraversare il libro senza che gli adulti debbano sorvegliare una simile fruizione (gli adulti saranno in ogni caso a disposizione così da poter fornire eventuali chiarimenti). Forse si sarebbe potuto adoperare dei trigger warning ma ciò avrebbe impedito un rapporto, il più possibile autonomo – come già detto – tra infanzia e libri.
La letteratura per l’infanzia, come le fiabe, contribuisce alla formazione delle persone sotto il profilo morale, fornisce esempi su ciò che è “giusto” e “sbagliato”, dà suggerimenti di questo tipo. Le nuove produzioni che si collocano entro i perimetri di questo genere tengono in considerazione questo ruolo pedagogico. È uno spazio di contesa politica anche per questo, si propongono immagini di un futuro auspicabile (con tutti i limiti che ciò possa significare). Gli adulti, infatti, sanno anche troppo bene che le persone più piccole subiscono la pressione di autorità di ogni libro; quando si immergono nella lettura stanno estendono il perimetro di quanto possano, a distanza di tempo, riconoscere e descrivere, o vedere con pregiudizio.
Le fiabe – per esempio – si modificano nel tempo, possiamo considerare i titoli di Dahl, per la loro influenza, qualcosa di simile? Mia nonna, i miei zii, i miei genitori mi hanno raccontato almeno 10.000 versioni diverse di Cenerentola o Hansel e Gretel o dell’Anello dei Nibelunghi e in questo esercizio narrativo di certo non è stata tradita la sacralità di qualche opera (in alcuni casi la strega era tutto fuorché malvagia, povera strega) benché il modello al quale si riferivano in realtà si è cristallizzato tra Otto e Novecento. Il confine tra autorialità, tradizione orale e folklore non è così nitido come potremmo pensare – a seconda del punto di osservazione che scegliamo, esso può cambiare, quasi scomparire, soprattutto se consideriamo processi che hanno esiti a livello globale.
Qui sta, se vogliamo, il problema. Ogni libro è il risultato di un processo complesso e partecipato e, ahinoi – se si vendono milioni di copie – economico. A chi appartengono quelle parole, quelle storie? Al lettore che le vive, all’autore che è morto da tempo? Agli eredi? Forse dovremmo eliminare, dal nostro equipaggiamento critico, concetti come “sacro”, quando ci riferiamo a un autore che si è sempre mosso, in modo confortevole, nell’industria della letteratura e dello spettacolo mainstream (senza nulla togliere al suo lavoro). Stiamo parlando di libri che nascono per vendere, vendere tanto e vendere in fretta (ottimi libri, non solo se consideriamo questa prospettiva).
La proposta forse è la seguente: dobbiamo prenderci cura di un immaginario condiviso nel quale i lavori di Dahl occorrono e continueranno a farlo o scegliere che questi titoli sfumino all’orizzonte, lentamente, come un relitto che affonda nel mare? Lui scriveva per bambini bianchi e privilegiati (non lo sto colpevolizzando). Se il nostro desiderio è che le sue storie resistano ai denti affamati del tempo, è lecito, se non doveroso, considerare di accogliere limitati aggiornamenti; considerare sensibilità policrome. L’autore stesso, in vita, ha radicalmente modificato il contenuto di alcuni suoi titoli proprio per estendere il confine del suo pubblico dimostrando la sua disponibilità nei confronti del suo agente, delle persone di cui – sotto il profilo umano e professionale – si fidava.
Dietro a tutto ciò, chiaramente, non ci sono solo alti propositi, anzi. Le finalità sono chiaramente quelle di un’impresa. Per un editore è più semplice operare così anziché investire in nuove opere, ritenendo il rischio troppo elevato. A scanso di equivoci: credo che esista una letteratura popolare che è canonizzata e la cui qualità non può essere messa in discussione anche in considerazione del fatto che è capace di portare certi temi al grande pubblico delle/dei bambine/i. Il problema che registro nelle recente dibattito è un altro, al di là della posa di molti filologi: agli occhi di qualcuno questo tipo di merce è paragonabile alla letteratura alta solo nel momento in cui si evidenzia un paradosso cultuale: la sacralità del libro che quasi coincide con l’eredità spirituale, inalterabile di un autore.
C’entrano forse i sentimenti. L’attaccamento che abbiamo alle letture che ci hanno formato, che sono entrate in noi quando la collezione di libri a nostra disposizione era molto limitata e che hanno costituito le fondamenta del nostro immaginario, del nostro linguaggio. L’affetto che proviamo per l’edizione che ci ha dato l’opportunità di cimentarci, per la prima volta, nella magica impresa di arrivare a un’ultima pagina. Se mettiamo in discussione queste produzioni, forse riteniamo di mettere in discussione noi stessi per ciò che siamo diventati a distanza di molto tempo, ci è richiesto un ulteriore sforzo di decostruzione.
Tutto questo, però, non può essere il perimetro emotivo di un problema così ampio e che riguarda, come già detto, la sfera pedagogica e sociolinguistica. Per intenderci: per me il Signore degli Anelli sarà sempre quello che ho divorato, leggendo giorno e notte, in una lontana estate dei primi anni duemila, ma con ciò non escludo che le recenti traduzioni non possano essere migliori, semplicemente ho interiorizzato alcune scelte lessicali che io attribuisco – erroneamente – alla sostanza stessa di quella storia (sì, la questione qui si sposta sulla traduzione, ma per chi abbia letto l’opera di Tolkien in italiano la distanza tra i due testi è persino più accentuata rispetto alle revisioni operate, sull’originale, di Dahl).
Quel settore, quello dell’industria culturale, che ho attraversato in punta di piedi (per allontanarmene) ha regole che mettono in un angolo il concetto di autorialità. Soprattutto, per assurdo, per le voci affermate le quali, più dei neofiti, rispondono a compromessi in termini di editing. Altro aneddoto: quando ebbi la fortuna di collaborare con una di queste multinazionali mi accorsi di quanto questi limiti possano essere soffocanti anche per chi si trovi agli esordi. Infatti mi fu richiesto di cancellare alcuni paragrafi che affrontavano l’evoluzione delle specie di Darwin che avevo proposto per un progetto che aveva come target i giovani-adulti (il contratto si esaurì nel giro di pochissimo tempo, per chiari motivi).
Detto ciò, quando a Dahl è stato fatto notare che gli Umpa-Lumpa non potevano essere persone nere di bassa statura che versavano in condizione di schiavitù, sapete Dahl che cosa fece? Diede retta al suo agente e ne modificò le sembianze (qui le versioni sono due, alcuni dicono che fu lui stesso ad accorgersi dell’inadeguatezza). Dobbiamo poi evitare un comune fraintendimento: gli scrittori, anche i migliori, non sono tutti degli eroi antisistema. In molti casi sono perfettamente integrati nei processi dell’industria culturale, ci sguazzano. Dahl non era né uno scrittore di (neo)avanguardia né un autore militante: le sue opere sono state rimaneggiate quando lui stesso era in vita, proprio per questioni di mercato.
Perché parlo di militanza e avanguardia? Perché il secondo tipo di pubblicazione desidera rispondere ai bisogni degli oppressi ed è caratterizzata da una sensibilità autoriale che sta nel perimetro delle “individualità organizzate”. Un buon libro per la società di mercato non è, spesso, un testo di (neo)avanguardia, proprio perché il desiderio che attraversa il secondo è quello di abiurare il capitalismo – pensiamo ai lavori di Nanni Balestrini, pensiamo al Gruppo 63. Segue che una merce può ricevere interventi di aggiornamento per continuare a rispondere ai bisogni del mercato, e un compromesso che richiede il mercato. Questo accade costantemente e con qualsiasi merce. Concedetemi un’ulteriore provocazione: il processo editoriale che ha riguardato i libri di Dahl è lo stesso che riguarda gli aggiornamenti biblici. Nessuno si scandalizza se la Bibbia è modificata da un’attività esegetica e filologica mossa dall’urgenza di mantenere inalterata la sua accessibilità (valore d’uso) e se questo testo così rilevante per la comunità cristiana sia, in sostanza, un documento organizzato da fedeli ed esperti (e questo è forse il tratto più interessante del processo editoriale che la riguarda).
Aggiornare consente di vivificare un messaggio, dà modo a esso di accedere alla contemporaneità, a un ampio pubblico e, qualche volta, significa che la cultura dominante mostra, sulla sua superficie adamantina, qualche crepa. Pochi storcono il naso se le traduzioni di Twain più moderne non contengono il termine “ne*ro”, e se, per renderle accessibile nelle scuole (secondarie di primo grado ed equivalenti, compresi gli Stati Uniti) si siano operati degli aggiustamenti che riguardan specifiche edizioni (Twain non utilizza “nigg3r” nelle avvertenze a Huckleberry Finn “Negro dialect of Missouri” ma produce i suoi testi prima dell’affermarsi di “black”, per intenderci).
Dante, Salinger, e molti altri autori che sono stati tirati in ballo nella polemica su Dahl condividono poco o nulla con lo scrittore britannico. Scusate se sono ovvio, ma sono produzioni che si rivolgono a un pubblico differente, prodotti di epoche distanti; espressione di un’intenzionalità autoriale lontana da quella di Dahl (a cui si attribuisce il merito di occupare molto più tempo libero in compagnia dei più giovani rispetto agli altri due autori e per questa ragione potrebbe essere più rilevante se ci interessa analizzare il modo in cui un libro plasma il nostro immaginario e quello delle generazioni entranti). Dahl produceva libri per bambini con l’intento di vendere e guadagnare (e divertirsi, molto, mentre immaginava le sue storie). La Commedia non nasce dalla medesima intenzione (merceologica), su questo possiamo essere d’accordo.
Ancora, il difficile rapporto tra oralità e scrittura che ho già lambito in questo intervento. In un altro ambito, quello del teatro (questa è un po’ una forzatura ma desiderio suggerirla ugualmente), i testi vivono negli adattamenti. L’adattamento è la forma stessa del teatro. Nessuno che vada a vedere Shakespeare, oggi, guadagna l’uscita lamentandosi della limitata fedeltà di ciò che è stato proposto sul palco. Se anche volessimo considera Dahl un mero strumento operativo nessun educatore o insegnante (spero) ne leggerebbe, senza filtri, alcune porzioni in una classe di persone di sei, sette od otto anni perché è chiaro che alcune immagini potrebbero ferire/essere utilizzate per ferire; soprattutto se le immagini proposte dall’autore possono echeggiare pregiudizi di genere, grassofobia, odiose forme di discriminazione. Forse il problema delle opere è, da un lato, mediale, dall’altro sta nel loro rapporto con la fanbase – infatti la fanbase non è un pubblico migliore o peggiore né ha il compito di custodire la purezza (quando la questione diventa la purezza dobbiamo stare in guardia) di un’opera.
Rodari, con cui forse non ci saremmo trovati d’accordo sulla questione, nella sua “Grammatica della fantasia” parla di un certo tipo di tabù, un tabù che si trova agli antipodi rispetto a ciò che ha avuto per oggetto questo mia riflessione. «Un certo gruppo di storie che personalmente trovo utile raccontare ai bambini, ma di fronte alle quali molti arricceranno il naso. Esse rappresentano un tentativo di discorrere col bambino di argomenti che lo interessano intimamente ma che l’educazione tradizionale relega in generale tra le cose di cui “non sta bene parlare”: le sue funzioni corporali, le sue curiosità sessuali. S’intende che la definizione di “tabù” è polemica e che io faccio appello all’infrazione del “tabù”». Trovo singolare che chi oggi si indigna per il processo editoriale che ha riguardato Dahl appartiene, spesso, alla categoria di persone che vorrebbe che certi temi non fossero affrontati a scuola, e che gradirebbe che le nostre storie condivise continuassero a riflettere l’ingiustizia sistemica in cui si specchia il loro privilegio.
Dahl ha scritto centinaia di migliaia di parole. In uno dei suoi libri i “censori” sarebbero intervenuti su 59 passaggi; ora, la qualità di un libro non è certo determinata dal numero di caratteri che contiene ma non possiamo negare il fatto che non si stia certo parlando di riscrittura. Dobbiamo capire se questa incongruenza sia lo scotto da pagare affinché questi titoli continuino a essere il patrimonio condiviso non solo di molteplici generazioni di lettori ma di persone con provenienza culturale differente e geografica: l’immaginario a cui accedono, e su cui si confrontano miliardi di soggetti e in cui possono trovare uno spazio sicuro, quando sono fuori e dentro la scuola.