Cultura | Editoria

Breve storia recente delle riviste culturali

Dal prossimo numero di Rivista Il Mulino, in uscita il 17 marzo, un estratto dedicato al ruolo delle riviste intellettuali nel dibattito culturale contemporaneo (si parla anche di noi).

di Anna Momigliano

Per fare un discorso sul ruolo delle riviste culturali, come prima cosa dovremmo chiarirci le idee su che cosa considerare “rivista culturale”. Terreno scivoloso, e potenzialmente sterminato (del resto, come vogliamo definire “cultura”? Insomma, si rischia di non uscirne più). Proviamo dunque a circoscrivere il campo, partendo da alcuni semplici enunciati. Per iniziare: ai fini della discussione, con “riviste culturali” intendiamo le pubblicazioni dove, primo, gli intellettuali si rivolgono a un pubblico non ristrettissimo e, secondo, lo fanno dando un peso alle proprie parole. «Un pubblico non ristrettissimo» perché, sempre ai fini di questa analisi, le riviste culturali vanno oltre le cerchie accademiche o degli addetti ai lavori. E «dando un peso alle proprie parole» perché l’impressione è che, quando intervengono sui grandi media, esperti, accademici e intellettuali non sempre lo facciano soppesando con cura ciò che dicono. Insomma, che si sia creato un cortocircuito in cui chi è investito di una certa autorità, quando si confronta con un medium per il grande pubblico, si ritrova a ragionare ad alta voce, mescolando opinioni ben ponderate a speculazioni del momento, e che questo abbia contribuito a una sorta di crisi dell’autorità. Ecco, le riviste culturali dovrebbero essere estranee a tale circolo vizioso. Terzo punto, per riviste culturali intendiamo pubblicazioni con la capacità di immettere nuovi temi nel dibattito pubblico e, quarto, in grado di fornire strumenti complessi – non semplici munizioni, ma ragionamenti articolati – a chi partecipa a tale dibattito. Il che ci porta al quinto assioma: almeno nelle intenzioni, le riviste culturali dovrebbero essere il luogo dove si alza il livello del dibattito pubblico, che è spesso appiattito su slogan e crociate, o sui codici dell’indignazione e della paura. Si potrebbe aggiungere che, sesto, le riviste culturali influenzano la direzione che il dibattito pubblico prende, possiedano insomma il potenziale di contribuire alla creazione di egemonie, di spostare l’ago della bilancia, ma su quest’ultimo punto ho qualche riserva.

Riassumendo, con «riviste culturali» mi riferisco a quelle pubblicazioni che, con più o meno successo, puntano a influenzare il dibattito pubblico, o ciò che ne rimane, nella sua parte più civile. In base a questa accezione, le riviste culturali sono serbatoi di idee da cui attinge la cosiddetta chattering class (ricorro a un anglicismo perché temo che l’equivalente italiano, «ceto medio riflessivo», sia caduto in disuso dopo il ventennio berlusconiano), quella parte della classe media che esercita ruoli e influenze nella politica, nell’accademia e nei giornali, e che a sua volta contribuisce a creare e modificare consensi.

Con “riviste culturali” intendiamo le pubblicazioni dove gli intellettuali si rivolgono a un pubblico non ristrettissimo e lo fanno dando un peso alle proprie parole Il dibattito delle riviste culturali si sovrappone, e insieme offre un correttivo, a quello dei social network.

Il dibattito delle riviste culturali si sovrappone, e insieme offre un correttivo, a quello dei social network. Come ha detto uno dei più grandi collezionisti privati di carta stampata, Steven Lomazow, «il modo migliore di pensare alle riviste è come un internet analogico, perché alimentano comunità di persone, come dei social network». Come i social network, le riviste immettono e demoliscono idee e creano microcosmi di consensi – le famose bolle. Ma, a differenza dei social network che spesso contribuiscono a esasperare o appiattire il dibattito, le riviste dovrebbero svolgere una funzione opposta, anzi, correttiva. Data la pervasività di internet, riesce difficile separare i due mondi e per questo ho scelto di concentrarmi su testate con una forte presenza online, o esclusivamente online. Quello che segue è un tentativo di rendere l’idea di come alcune riviste culturali abbiano contribuito al dibattito politico-culturale negli ultimi anni. Non è una lista esaustiva, e neppure una classifica, ma una serie di esempi che, mi auguro, aiutino a comprendere un clima più ampio. La scelta è ricaduta su riviste italiane e americane non per orgoglio nazionale né per anglofilia, ma perché sono le sfere culturali che meglio conosco.

Per alimentare un dibattito culturale non basta immettere contenuti validi e interessanti: occorre incanalarli, fare in modo che raggiungano il pubblico in un certo modo e non in un altro. Questo ha fatto, e per certi versi continua a fare, minima&moralia, il blog di minimum fax che spesso, tra le altre cose, funge da collettore di contenuti presi dalle pagine culturali dei quotidiani o da altre testate culturali. Per capire la rilevanza di minima&moralia bisogna ricostruire com’era il mondo in cui ha iniziato a muoversi, una dozzina di anni fa, in un’Italia in cui correva ancora un rapporto freddo tra mondo della cultura e web. Era l’estate del 2009 quando un gruppo di intellettuali e scrittori che gravitava intorno alla casa editrice decise di aprire il blog. Non si trattava del primo sito culturale nella Rete italiana – da anni era presente una pattuglia agguerrita di blog come Il primo amore o Nazione Indiana – ma è stato il primo legato a una casa editrice. Eppure non è mai stato un blog “aziendale”: sin dall’inizio ha puntato a essere rivista culturale a tutto tondo, agendo da collettore di dibattiti e alternando a contenuti originali articoli pubblicati altrove. Spesso si trattava di testi che, se non ripubblicati, avrebbero rischiato di andare “persi”, vuoi perché usciti solo su cartaceo, vuoi perché, specie in quegli anni, certe testate, anche blasonate, restavano escluse dal dibattito sui social. Quando qualcosa finiva su minima&moralia, invece, si poteva stare certi che sarebbe rimbalzata in certi giri. Diventato indipendente dalla «casa madre» nel 2014, minima&moralia ha ospitato interventi, denunce, interviste, ma anche dibattiti come quello sulla scuola democratica, o sullo stato dell’editoria, non disdegnando l’attualità, parlando delle trasformazioni del mondo del lavoro o di urbanistica e turismo di massa. Minimo comune denominatore: alzare il livello del dibattito, culturale, politico e sociale, fornendo a chi legge gli strumenti per formarsi un’opinione.

Pochi anni dopo, nel 2011, è nata doppiozero, un’altra rivista culturale che, a un decennio di distanza, continua ad avere un certo peso: nata su iniziativa di alcuni docenti universitari, e inizialmente rivolta a un pubblico leggermente più maturo rispetto ad altre riviste culturali, italiane e straniere, discusse in questa sede, tende a concentrare buona parte delle sue forze sulla letteratura e sul cinema, con minore enfasi sulla cultura politica e i temi sociali. Inoltre, si distingue per una tendenza all’approfondimento verticale, raro nelle testate online, per esempio con serie di articoli che affrontano lo stesso tema da un punto di vista diverso. Il risultato di questa combinazione è che, quando emerge un argomento, specie in ambito letterario, che per una ragione o per un’altra assume rilevanza, doppiozero diventa un punto di riferimento da consultare. Come è accaduto recentemente in occasione della scomparsa di Gianni Celati, quando la rivista ha proposto nella propria homepage una serie di approfondimenti sull’autore. Quando mi capita di scrivere di letteratura italiana per testate straniere, andare a spulciare gli archivi della rivista è quasi un passaggio obbligato, per farmi un’idea dei diversi punti di vista. Altra particolarità, poi, è che nel tempo doppiozero si è ampliata in piccola casa editrice, con la pubblicazione di volumi cartacei.

Per alimentare un dibattito culturale non basta immettere contenuti interessanti: occorre incanalarli, fare in modo che raggiungano il pubblico in un certo modo e non in un altro

Rivista Studio è stata tra gli antesignani del giornalismo di approfondimento e di qualità, pensata principalmente, anche se non solo, per internet: un tempo si definiva “Rivista di attualità culturale”, formula che costituisce un ossimoro sì, ma solo in parte, poi rimodernata in “Attualità Cultura Stili di vita”. Fin dall’inizio l’idea puntava, come spiegò una volta uno dei fondatori, a essere il posto «dove le persone interessate alle cose belle vanno per trovare qualcosa di intelligente, e dove le persone interessate alle cose intelligenti vanno per trovare qualcosa di bello». In altre parole, tenere insieme i due temi principali delle riviste per il grande pubblico, attualità e lifestyle, elevandoli con una cura particolare, e i temi più tipici delle riviste culturali, la cultura per così dire «alta», con una particolare attenzione per la critica letteraria (tra i collaboratori, le scrittrici Letizia Muratori e Veronica Raimo, gli editor Matteo Codignola e Francesco Guglieri, e a questo punto un po’ di glasnost: per Studio ho lavorato io stessa molti anni fa). Il modello, più o meno dichiarato, è quello dei magazine americani alla New Yorker, i cosiddetti slow journalism e new journalism, dove il secondo è un sottoinsieme del primo: reportage e pezzi lunghi con dignità letteraria, inframezzati da articoli più rapidi e leggeri. Oggi, nel 2022, la formula può non sembrare così originale neppure in Italia. Ma quando è stato fondato, nel 2011, Studio era praticamente un caso unico nel panorama nazionale, che negli anni a venire ha influenzato una generazione di pubblicazioni a metà strada tra rivista culturale e rivista punto, da Il Tascabile (vedi sotto) alle edizioni italiane di Esquire, Wired e GQ. Se esiste un certo modo di discutere, e perché no battibeccare, in un determinato mondo italiano – un ceto medio riflessivo, più o meno giovane – lo dobbiamo in buona parte a Studio.

La diffusione massiccia di internet ha avuto come effetto secondario di far perdere parte della sua centralità all’oggetto libro, e le enciclopedie sono state un settore più minacciato di altri

La diffusione massiccia di internet ha avuto come effetto secondario di far perdere parte della sua centralità all’oggetto libro, e le enciclopedie sono state un settore più minacciato di altri. Ad avere pienamente accettato la sfida posta dalla modernità tecnologica è l’Enciclopedia Treccani, che da qualche anno ha aumentato la sua presenza in Rete, da un lato pubblicando online, liberamente consultabile, la sua enciclopedia e, dall’altro, avviando una serie di progetti paralleli: in particolare, Il Tascabile, una vera e propria rivista online, o per meglio dire una rivista culturale a vocazione enciclopedica. Nato nel 2016 da un progetto congiunto fra l’agenzia digitale Alkemy e l’Istituto Treccani, Il Tascabile è probabilmente uno degli esperimenti più interessanti degli ultimi anni perché unisce il rigore dell’enciclopedia alla fluidità di internet e al linguaggio contemporaneo. Il Tascabile riesce ad arrivare dove per ragioni “anagrafiche” la Treccani non arriverebbe: a un pubblico giovane (almeno nell’accezione italiana del termine, dove sono giovani tutti quelli con meno di quarant’anni), interessato ad andare oltre il semplice approfondimento fornito dai giornali italiani. Uno dei suoi punti di forza è l’attenzione che dedica ai temi ambientali, spesso in Italia affrontati superficialmente o ridotti a meri slogan. Il successo del Tascabile, che in questi anni ha generato a sua volta ulteriori progetti paralleli come una rivista cartacea aperiodica e una scuola di scrittura, è la dimostrazione che un’istituzione culturale può ancora dire molto nella vita pubblica italiana. […]

Dal prossimo numero di Rivista Il Mulino, “La vocazione intellettuale“, in uscita il 17 marzo