Stili di vita

Tovagliette — Cacio e pepe

Nulla distrugge più di una cacio e pepe sbagliata, soprattutto se quello che l’ha sbagliata sei tu.

di Tommaso Melilli

Nel linguaggio comune, quando diciamo che una cosa è la nostra “nemesi”, facciamo riferimento a una persona o a un oggetto che ci crea grandi difficoltà: un tipo di difficoltà particolare però, che va ben oltre il semplice fastidio, una difficoltà senza via d’uscita. Quella persona o quell’oggetto che chiamiamo nemesi rappresenta per noi il nostro esatto contrario: da un lato tutto ciò contro cui abbiamo sempre combattuto, dall’altro qualcosa che fa intimamente parte di noi; un lato oscuro che ci seduce e che, in fin dei conti, ha a che fare con noi più di tante cose che non temiamo affatto.

La mia nemesi è la cacio e pepe. A differenza del pollo, che detesto in modo più sciatto e che mi rifiuto semplicemente di cucinare, la cacio e pepe è in realtà uno dei miei piatti preferiti, uno di quei piatti che mangerei in qualunque momento; la prima cosa che mi viene in mente di cucinare quando sono da solo e non devo stupire nessuno.

Il problema è che non mi riesce quasi mai. E nulla mi distrugge più di una cacio e pepe sbagliata, soprattutto se quello che l’ha sbagliata sono io. Quando la sbaglio, divento intrattabile e nervosissimo per almeno un paio di giorni, dormo male, litigo con tutti e di conseguenza cucino malissimo anche tutto il resto. Ragion per cui, fino a due settimane fa, anche grazie al saggio consiglio della mia compagna (che è romana e che se non sono intrattabile preferisce), la cacio e pepe era drasticamente esclusa dal mio repertorio. I miei colleghi mi dicevano suvvia, basta fare la cremina, non è difficile. Io cercavo, e sperimentavo tecniche bizzarrissime.

Si vocifera che la temperatura magica, oltre la quale il pecorino romano s’aggruma, sia 62° (durante i mesi di esitazione avevo anche ordinato un termometro laser per monitorare la temperatura della “cremina”: ora lo usiamo per misurarci la febbre quando siamo in servizio e ci sentiamo un po’ affaticati). Rimanevo col dubbio atroce che ci fosse qualcosa di semplicissimo che mi sfuggiva, perché una cosa così popolare non può essere un’operazione farmaceutica: ci vuole un gesto semplice, magari arduo ma immediato.

Due settimane fa, non so bene perché, ho deciso di metterla nella carta della settimana. La mia compagna ha minacciato di tornare a Roma dai genitori. Ho ordinato 12 chili di pecorino romano, sono arrivato alle 7 del mattino e ho cominciato a fare vari test. A mezzogiorno avrei servito le prime cacio e pepe della mia vita. A mezzogiorno meno un quarto, dopo aver buttato via 4 chili di pasta e più o meno altrettanto pecorino, ho servito tre cacio e pepe, una per me, una per il cameriere e una per il lavapiatti: tutte e tre sbagliate.

In quel quarto d’ora che rimaneva, ho deciso di non riprovare, e di fumare cinque o sei sigarette. Perché, in quel quarto d’ora, c’era in realtà un altro problema che mi angustiava: ammesso e non concesso che la mia cacio e pepe non si scindesse in orrende grumaglie e brodo di formaggio, anche se fosse riuscita perfetta, ero quasi certo che ai francesi non sarebbe piaciuta. Ce la vedete voi Marion Cotillard che mangia una cacio e pepe? Troppo sale, troppo pepe. E poi i francesi vogliono sempre il tartufo, i porcini, l’aragosta o nel migliore dei casi il pomodoro di quella stramaledetta collinetta in Sicilia. Troppo pochi ingredienti, troppo saporiti e troppo semplici.

Quando ci fu il grande scandalo della carbonara one pot, qualcuno disse che è normale che i piatti della cucina romana vengano “rivisitati” e addolciti, perché in fin dei conti la cucina romana, quella autentica, è roba per macellai. Una cucina da macellai, da retrobottega, fatta di guance, stomachi, budella, code, una cucina che cerca la gioia non nelle stelle ma nel culo del culo delle cose. A mezzogiorno mi rimanevano 8 chili di pecorino romano grattugiato fino, una discreta quantità di pepe e spaghetti.

Detto in nota: dal punto di vista tecnico, tra i vari “caci” con cui si può fare la cacio e pepe, il pecorino romano è di gran lunga il meno adatto, perché nessun altro formaggio a pasta dura “impazzisce” quanto il pecorino. Ma siccome non sono scemo (e ho già affrontato la questione dei riti voodoo dei romani per chi sbaglia a far la carbonara) usiamo ovviamente pecorino romano e vedremo di farcela lo stesso.

Spaghetti e solo spaghetti, eventualmente alla chitarra. Spaghettoni anche benissimo. Unica eccezione possibile i rigatoni, che da qualche anno a questa parte sono diventati tipo l’Elena Ferrante della pasta e quindi vanno bene con tutto. Capitolo pepe: se volete potete tostare leggermente i grani di pepe in padella per pochi minuti e poi macinarlo col mortaio. Ma anche il macinapepe andrà benissimo: in tal caso, mezzo giro di macinino per spaghetto.

Acqua bollente, pochissimo sale. Buttate la pasta e cuocete gli spaghetti al chiodo (nel senso che se sul pacchetto c’è scritto 10 minuti voi la cuocete 7). Nel frattempo, per 100g di pasta, serviranno fra i 50 e i 70g di pecorino (due “manate”): mettete il pecorino e il pepe in un recipiente svasato: aggiungete alla mistura di pecorino e pepe un primo mestolo d’acqua di cottura e mescolate, poi un secondo: rimescolate; poi un terzo e rimescolate. La crema dev’essere decisamente liquida: a differenza della carbonara, che se mettete un cucchiaio d’acqua di troppo viene in brodo, per la Cacio e pepe propendete per troppa acqua piuttosto che troppo poca. (Troppo poca uguale grumi).

Prendete il recipiente con la cremina e avvicinatelo alla pentola dove cuoce la pasta: immergete il fondo del recipiente mescolando sempre e osservando con attenzione la crema. A un certo punto i grani di pecorino spariranno e tutto diventerà più armonioso e amalgamato. Togliete subito. Estraete la pasta e mettetela in una grande padella svasata, senza buttare l’acqua di cottura, e aggiungete poca acqua di cottura per non farla seccare. Aspettate un paio di minuti. Rimettete mezzo mestolo d’acqua di cottura nella cremina e rovesciate il tutto nella padella, cominciando a spadellare vigorosamente lontano dal fuoco. Se vi sembrerà leggermente liquida vuol dire che è perfetta, si asciugherà nel piatto. Se vi pare decisamente troppo liquida o troppo fredda, appoggiatela sulla pentola con l’acqua di cottura e scaldatela leggermente a bagnomaria.

A mezzogiorno e un quarto sono arrivate due compite ragazze francesi che volevano pranzare. Hanno ordinato due cacio e pepe. Quel poco di etica narrativa che mi resta mi impedisce, purtroppo, di dire che una delle due somigliava a Marion Cotillard, ma insomma l’idea è quella. Ho fatto due cacio e pepe. Le osservavo, ovviamente con grande apprensione. Verso la fine del piatto hanno cominciato a guardare me e il cameriere con un certo imbarazzo. Panico. Nelle mie elucubrazioni sul gusto francese avevo dimenticato un dettaglio fondamentale: ai francesi piace il formaggio. Il cameriere è venuto a dirmi che, se possibile, ne avrebbero preso un terzo piatto, da dividere. La settimana prossima, se vi capita di passare a Parigi, sappiate che faccio la coda alla vaccinara.

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