Un'immagine scherzosa o offensiva può fare politica? Dalla nuova Meme Alliance in protesta contro Facebook fino a Pepe the frog, l'attivismo ai tempi dei meme.
Sicuramente c’è un nome per quella psicopatologia che porta a compiere ogni volta la stessa azione aspettandosi un risultato diverso ogni volta. Per nessuno dei cinque referendum dell’8 e del 9 giugno si è raggiunto il quorum, un fatto che dispiace (non al 70 per cento degli aventi diritto, però) ma che non sorprende: dal 1995 a oggi ci sono stati nove referendum abrogativi e il quorum è stato raggiunto soltanto in due occasioni, in quello sulla privatizzazione della Rai del 1995 – se è vero che al referendum funzionano solo i quesiti “etici”, allora, per logica aristotelica, gli italiani considerano la privatizzazione della tv di Stato una questione che ha che fare col bene e col male – e in quello sull’acqua pubblica e il nucleare del 2011. È comprensibile che basti questo paio di precedenti favorevoli per riaccendere ogni volta la speranza, ma prima o poi dovremo decidere quale è la regola e quale è l’eccezione, perché ci vuole un attimo a passare da ingenui a scemi.
A che serve un referendum
Prima o poi dovremo decidere anche che cos’è e a che cosa serve (serve?) un referendum abrogativo. In certi momenti si ha l’impressione che il grillismo sia penetrato così in profondità nel tessuto socio-culturale italiano da esserne ormai esso stesso la fibra: il referendum come unico processo legislativo possibile, efficace e giusto. Partiti politici che chiamano a raccolta gli elettori, sindacati che si rivolgono ai tesserati, lo stesso piglio disperato: che fare? Dipende tutto da voi, elettori e tesserati. Vote or die, come diceva lo slogan creato da un rapper caduto in disgrazia.
Per colpa di chi è fallito dunque il referendum? Nello scorso fine settimana, la maggior parte delle Storie che ho visto su Instagram erano foto di tessere elettorali, inviti al voto, cazziatoni per gli astensionisti, previsioni apocalittiche in caso di mancato quorum, infografiche che spiegavano quale quesito corrispondesse a quale scheda di quale colore. È questo lo slacktivism, l’attivismo dei pigri, la politica di chi vede l’orizzonte dentro i social? A chi ci rivolgiamo quando parliamo al nostro smartphone? A quello specchio che sono i nostri follower, quindi a che serve? A niente, visti i risultati. Ma almeno le cento, le mille, le diecimila, le centomila persone che fanno finta di starci appresso sapranno che in un fine settimana di giugno «vivevo un momento epocale» (e questo mi salva dal rischio di essere un coglione qualunque, parafrasando una leggendaria vignetta di Altan).
L’inganno dello slacktivism
Una persona che seguo su Instagram, lunedì 9 giugno scriveva: «Nella mia bolla abbiamo tutti votato e stiamo tutti leggendo Lo sbilico di Alcide Pierantozzi. Non so se ho voglia di uscire e scoprire che nella mia bolla siamo 27 persone che niente possono contro il resto del mondo». Sorpresa. L’equivoco dello slacktivism sta proprio qui, nella convinzione che la bolla possa bastare non solo a se stessa ma anche al mondo intero, che la bolla esista e il resto del mondo no. E invece il resto del mondo è il posto in cui andare a trovare le idee, le energie, le persone necessarie a far succedere le cose. Solo che questa attività si chiama politica e non si può fare sui social, postando Storie, standosene dentro la bolla, parlando solo tra persone che leggono tutti gli stessi libri negli stessi momenti (storie piene, urne vuote, così va). Non si può neanche fare con i referendum, perché prima di avere il sì di una persona tocca convincerla, quindi parlarci, quindi incontrarla. Tocca prendersi il rischio di avere a che fare con gente che all’inizio non ci piacerà, che non la penserà come noi, che dirà cose che ci faranno innervosire o imbestialire o inorridire. Eppure funziona così: per far succedere le cose serve l’aiuto di quella persona, molto più di una condivisione nelle Storie.
Se una persona indecisa o indifferente avesse visto quelle Storie – non le ha viste, è proprio questo il punto, ma facciamo finta di sì per il bene della discussione – cosa avrebbe visto? Cosa avrebbe pensato? Probabilmente che siamo tutti matti. Mi ci metto dentro anche io. Domenica mattina sono andato a votare prestissimo, convinto che se quegli indecisi e quegli indifferenti avessero saputo di alte percentuali di affluenza, magari sarebbero andati a votare pure loro, perché pure loro avrebbero preferito vivere il momento epocale e non essere dei coglioni qualunque. Dopo aver votato, sono tornato a casa e ho passato una buona parte della mia giornata affacciato a una finestra che dà su una scuola elementare seggio elettorale, a misurare a occhio nudo i flussi elettorali.
Nei momenti in cui nessuno andava né veniva dal seggio controllavo il telefono, assicurandomi che nel mio feed ci fossero abbastanza improperi rivolti a chi, invece di tessere, cabine, urne, timbri postava le foto del primo fine settimana davvero estivo dell’anno. A poco e a niente sono serviti i richiami alla razionalità di alcuni, pochi, troppo pochi: in due giorni di urne aperte, c’è tempo in abbondanza per il dovere civico e il piacere vacanziero, asciugatevi la bava che vi cola dalla bocca. Niente da fare, d’altronde il fratello gemello dello slacktivism è il virtue signaling: se non sei buono come me, allora sei contro di me, non basta andare al seggio a votare ma bisogna anche rimanerci fuori per 48 ore a presidiare. Davvero il mondo si può cambiare così? Per conformismo, per costrizione, per vergogna, per isteria?
Una buona base, forse
Davvero si può pensare di diventare maggioranza futura proponendo per la maggioranza attuale la revoca della cittadinanza come pena per lo scarso senso civico dimostrato l’8 e il 9 giugno? Dimostrazione, questa, di non aver manco capito il quesito al quale si è votato sì: cittadini si è a prescindere da quello che si fa, da ciò che si vota, dalle Storie che si postano.
Ci vorrebbe qualcuno o qualcosa capace di mettere ordine. A prescindere dall’ennesima analisi della sconfitta che a sinistra ci tocca fare, questo referendum non è stato solo rumore ma anche segnale. Quindici milioni di persone sono andate a votare. Di queste, l’88 per cento ha votato sì ai quattro quesiti sul lavoro. Il 65 per cento ha votato sì a quello sulla cittadinanza. In altri tempi, questa si sarebbe definita non una vittoria, come ha cercato di farla passare Elly Schlein, ma una base elettorale. Certo, erano i tempi in cui erano i partiti e i sindacati a trovare le soluzioni che gli elettori e i cittadini ponevano, non il contrario.