Attualità | Stati Uniti

La rabbia giovane

Le proteste degli studenti nelle università americane non riguardano solo la Palestina né gli Stati Uniti: sono un evento attorno al quale si stanno raccogliendo per la prima volta tutte le istanze politiche della Generazione Z.

di Gabriel Seroussi

Il 30 aprile 2024 è stato il cinquantaseiesimo anniversario dell’irruzione violenta della polizia nella Columbia University, per arrestare settecento studenti che protestavano contro il razzismo e la guerra in Vietnam. È stato anche il giorno in cui l’amministrazione della Columbia ha, per la seconda volta in poche settimane, aperto le porte del suo campus all’intervento delle forze dell’ordine. Gli agenti in tenuta antisommossa hanno proceduto all’arresto degli studenti filo-palestinesi che si erano accampati nella Hamilton Hall, la stessa sede protagonista delle manifestazioni del 1968. La Columbia University non è l’unico college americano ad aver richiesto l’intervento della polizia per reprimere le proteste, per lo più pacifiche, degli studenti in sostegno a Gaza. Il 22 aprile, lo sgombero da parte delle forze dell’ordine dell’accampamento organizzato dagli studenti della New York University ha portato a più di 200 arresti e diversi feriti. Si tratta di una escalation nelle manifestazioni, e nella repressione di queste, che promette di proseguire anche al di fuori dei confini americani. Il 15 maggio sono chiamati a protestare gli studenti universitari italiani. La mobilitazione, sull’esempio statunitense, prevederà l’occupazione pacifica dei cortili degli atenei. La globalizzazione della protesta apre a molte riflessioni sulla narrazione che ha investito i giovani negli ultimi anni. Raccontati come pigri, disinteressati alla politica, incapaci di mobilitarsi al di fuori della dimensione virtuale dei social media, la famigerata Gen Z sembra essere molto più combattiva di come molti la hanno, sciaguratamente, etichettata.

«Quello che sta succedendo nelle ultime settimane non ha precedenti recenti nelle università americane, ma è figlio di anni di lotte che hanno sedimentato pratiche e saperi tra gli studenti», mi dice G. S., giovane docente italiana presso la NYU che mi ha gentilmente concesso un’intervista, nonostante le giornate caotiche che si stanno vivendo nel suo ateneo. G. S. ha svolto il suo dottorato di ricerca a NYU ottenendo lo scorso anno un contratto come Teaching Postdoctoral Fellow. Ha attraversato, come studentessa liceale e universitaria, i movimenti sociali italiani e oggi è una delle docenti più attive nella mobilitazione contro l’invasione israeliana di Gaza. La professoressa mi ha chiesto di mantenere nascosta la sua identità. La repressione nei confronti degli attivisti si basa anche sul ricatto nei confronti di studenti e docenti non americani, un gran numero nelle università newyorkesi, la cui posizione negli Stati Uniti è legata al mantenimento del visto.

Innanzitutto, G. S. legge questa escalation nella mobilitazione per la Palestina nelle università, non come una presa di coscienza isolata e circoscritta, ma come il frutto di anni di lotte sociali in cui i giovani sono sempre stati, in qualche modo, protagonisti. «Ciò che stiamo vedendo in queste settimane nasce dalle tante mobilitazioni che hanno attraversato gli Stati Uniti in anni recenti, su tutte Black Lives Matter. Quest’ultima ha avuto un’enorme importanza nel ritrovare pratiche di piazza e di resistenza collettiva», mi racconta la docente. In questo senso, G. S. ricorda anche il ruolo fondamentale del movimento Strike MoMa, che nel 2021 aveva protestato contro le pratiche coloniali e iper-capitaliste che dominano il mercato dell’arte contemporanea, in generale, e quella istituzione, nello specifico. La capacità di quella mobilitazione di riportare riflessioni di ampio respiro ad azioni pratiche, specifiche e incisive sull’isola di Manhattan è stata, effettivamente, un precedente significativo.

Sembra chiaro, però, che questo movimento vada oltre la critica ai rapporti tra atenei e industria bellica israeliana. La causa palestinese è una miccia di un malcontento più ampio che ha trovato in Gaza, nelle evidenti responsabilità che ha l’Occidente in questa vicenda, una rappresentazione di più ampie ingiustizie globali. «La lotta per la Palestina è una lotta contro l’oppressione autoritaria, contro la violenza militare e poliziesca, contro il razzismo sistemico. Ma è una battaglia che si può intersecare anche con temi come il diritto all’abitare, alla salute, ai beni comuni. Si tratta di un movimento, di fatto, anticapitalista e gli studenti lo sanno bene. È ben presente la consapevolezza di trovarsi nel cosiddetto “ventre della bestia”, e che le dinamiche specifiche della Palestina sono in realtà reciprocamente legate ai bisogni e alle ambizioni statunitensi», mi conferma G. S.

A questo punto interrogo la professoressa su uno dei temi più sottolineati dai detrattori delle proteste. Secondo alcuni queste mobilitazioni, seppure importanti, non rappresenterebbero un movimento reale, in quanto relegate ad un contesto elitario come quello delle università americane. La docente su questo mi risponde in maniera chiara: «Sarebbe molto sciocco ridurre a questo, il movimento. Innanzitutto non tutti gli studenti sono di estrazione borghese, molti sono all’università grazie a borse di studio e sacrifici, e stanno rischiando il proprio futuro accademico per partecipare alle proteste. Indipendentemente da questo, poi, mi sembra sia il classico esempio del guardare il dito mentre il dito indica la luna. Le università americane sono un sistema privatizzato e iper-competitivo; vivere a New York è complicatissimo per chiunque tra affitti e costo della vita. Se le università newyorchesi rischiano di diventare elitarie non è certo colpa di coloro che le frequentano ma di come queste istituzioni sono strutturate. Direi che questo tipo di critiche sono figlie di una narrazione che vede gli Stati Uniti come qualcosa di monolitico. È chiaro che tutti gli Stati Uniti non sono riducibili agli studenti universitari di Manhattan, ma questo è un problema di chi racconta la realtà, non di chi la vive».

Come si diceva già in precedenza, molti sono rimasti sorpresi dalla portata di questa mobilitazione ritenendo la Gen Z non incline allo scendere in piazza “come si faceva una volta” – se volessimo usare un lessico attempato. Sul rapporto tra giovani, social media e proteste chiedo a G. S. quale sia la sua opinione. «La maggior parte degli studenti di oggi ha cominciato il proprio percorso accademico online a causa della pandemia. Dunque, credo che la voglia di ritrovarsi in una collettività abbia un peso evidente. Anzi, penso che, per alcuni, queste manifestazioni siano state in qualche forma curative. Si fa un gran parlare dei casi crescenti di ansia e depressione tra i giovani. Quale miglior rimedio dello stare insieme?», risponde. Poi, su mio invito, risponde ad una domanda sullo slacktivism, ossia sulle pratiche di attivismo online, secondo alcuni molto diffuse tra i più giovani: «Ho l’impressione che tra i giovani ci sia una coscienza diffusa, molto più che tra gli adulti, del ruolo che i social media hanno nelle vite di tutti noi e nella società in cui viviamo. C’è una forte critica nei confronti del mezzo. La mole di contenuti censurati da Instagram sulla Palestina ha evidenziato quanto il sistema mediatico in cui siamo immersi non sia affatto neutro. I social sono quindi usati dai ragazzi e dalle ragazze che scendono in piazza con grande intelligenza e attenzione».

In conclusione, per passare da questa parte dell’oceano ho contattato Basem, attivista dell’organizzazione Giovani Palestinesi d’Italia, la quale ha lanciato un appello alla mobilitazione, sul modello americano, nelle università italiane per il 15 maggio. «Da mesi scendiamo in piazza, ma è chiaro che l’attenzione creata dagli studenti americani ora ci ha portato a perseguire altre pratiche, come per esempio quello dell’accampamento nelle sedi degli atenei», mi dice Basem. Secondo lui la potenza di questa protesta risiede nel ruolo che le università ricoprono nella società: un luogo di condivisione di saperi ma anche istituzioni che dovrebbe creare la classe dirigente del futuro. Questo spiegherebbe anche la repressione sproporzionata che il movimento sta subendo. Sull’impegno dei giovani nel mobilitarsi, Basem non ha dubbi: «Sicuramente l’atomizzazione della nostra società negli ultimi decenni ha indebolito le lotte sociali. Quello che però possiamo vedere è che qualcosa sta cambiando tra i più giovani: c’è una riscoperta, non scontata, del valore della collettività».