Cultura | Pop

Raffaella Carrà nel Sud degli anni ’70

L'icona pop, scomparsa a 78 anni, vista dalla provincia meridionale, attraverso la storia d'Italia e quella privata di ogni famiglia.

di Antonio Pascale

Per molto tempo, il caschetto biondo di Raffaella Carrà l’ho visto in bianco e nero. Del resto, il bianco e nero, è stato lo standard televisivo (almeno per me) fino al 1978.  Il suo corpo, invece, lo ricordo spezzettato, oppure in bilico sulle spade o sui tacchi con vestiti futuristi, in pose iconiche. Frame di memoria.

Una volta era il mago Silvan che con un incredibile e, ai tempi, molto commentato trucco, era riuscito a tenerla, appunto in equilibrio su delle spade (forse erano tre, ne tolse due, ne rimase una). Un’altra volta, durante un balletto, si piegava all’indietro e io, bambino, non riuscivo a capire come potesse assumere quella posa senza spezzarsi.

Il caschetto biondo in bianco e nero  lo vedevo finalmente a colori quando sfogliavo i giornali che mia madre comprava, Oggi soprattutto. Lì, Raffaella Carrà compariva spesso, e spesso insieme a un uomo con  i baffi, Sergio Japino. Ricordo certi commenti delle amiche di mia mamma: brutto ma simpatico, con quei baffoni. Se mi guardavo in giro, tutte le amiche di mia mamma erano biondo platino e tutti i mariti di quelle amiche di mia madre portavano i baffi ed erano brutti ma simpatici.

All’epoca la movida non si portava ancora, anzi la città dove abitavo, Caserta, si svuotava già verso le 20, insomma alla chiusura dei negozi. Sì, qualche bar rimaneva aperto fino alle 22 e quelli che andavano al cinema all’ultimo spettacolo, venivano considerati alla stregua di avventurieri. Non c’era la movida ma c’erano le cene del sabato sera. Una tradizione. A casa mia venivano gli amici di famiglia, mogli biondo platino e mariti con baffoni  e spesso a rotazione andavamo a casa degli altri. Si mangiava e poi si guardava la televisione, ed ecco che arrivava il caschetto biondo, in bianco e nero, di Raffaella Carrà e il suo corpo spezzettato: ricordo i commenti, sul suo ombelico e su alcune canzoni, i mariti che scherzavano, e le donne che sfottevano i mariti che scherzavano. Ricordo il suo corpo spezzettato, in bilico sulle spade, l’ombelico, certi balletti, ma ricordo anche tensioni erotiche, forse sommerse. Ricordo la necessaria allegria da sabato sera: stiamo un po’ in allegria – si diceva – senza pensieri, almeno il sabato: erano questi i commenti che ascoltavo.

Ora, a distanza di anni, si fa fatica a raccontare l’Italia degli anni ’70. Anche a Caserta, una città di provincia a pochi chilometri da Napoli, di animo conservatrice e democristiano, arrivavano gli echi del mondo e che echi, veri e propri rimbombi. Un giorno sì e un giorno no, si parlava di terrorismo e di crisi economiche, di inflazione e di mini assegni che si accumulavano nelle tasche, anche nelle mie, e con i quali a volte, non riuscivo a comprare un gelato. Durante la settimana, era un misto di roba così, poi il sabato, a casa mia e in quelle degli amici di famiglia, si creava una bolla: pasta a volontà, mozzarelle, salame e Raffaella Carrà: stiamo un po’ in allegria dai.

Ricordo una discussione sulla qualità dell’allegria, avevo 12 anni, seconda media ai Salesiani. Il signor Franco, uno con i baffi alla Japino, a cui non era piaciuta la sigla di Ma che sera, dove Raffaella Carrà cantava “Tanti auguri”. E dai, stiamo un po’ in allegria, dicevano i miei e gli amici dei miei, ma il signor Franco era indispettito e alzava pure la voce: «Hanno rapito Moro e noi cantiamo? Ma che Italia è questa, come vogliamo andare avanti?». La moglie del signor Franco, Anna, faceva segno di lasciarlo perdere, da un po’ di tempo stava nervoso. In effetti, avremo scoperto da poco, il signor Franco stava nervoso non per Raffaella Carrà che cantava durante il rapimento Moro ma perché si era preso una cotta per una: «una che fa tutta la smorfiosa, con la faccia da bambina, che rideva sempre ma che tiene da ridere», raccontava Anna.

Poi avrei saputo pure che Raffaella Carrà non voleva che il programma andasse in onda in quel periodo, che si sarebbe vergognata, ma fatto sta che quando lei sparì per un po’ dalla televisione, anche le usanze della mia famiglia cambiarono: prima eravamo tutti felici e all’improvviso c’erano problemi di coppia, litigavano i miei, il signor Franco divorziava dalla signora Anna, e problemi simili anche nelle altre coppie: si attribuiva la coppia alla crisi delle mezza età, oppure come diceva Lello – quello colto del gruppo, uno che non leggeva solo Oggi, la Gazzetta dello Sport o la Settimana Enigmistica, ma l’Espresso e Repubblica – stavamo scoprendo l’eros e cioè i corpi subivano un processo di trasformazione, ora si mettevano in mostra, da fantasmi televisivi a materia palpabile e sfiorabile, gli ombelichi erano tra noi. Risultato? Leggerezza e felicità, come è bello far l’amore, appunto, e subito dopo, tormenti e disperazioni, tipiche del post coito.

Le crisi si susseguirono e molti non le superarono e forse per questo accogliemmo la nuova versione di Raffaella Carrà con un sospiro di sollievo, con Pronto Raffaella, tra l’altro andava in onda a mezzogiorno (orario assurdo per noi degli anni ’70).

La nuova versione era castigata, e anche se ogni tanto arrivava Silvan non cerano corpi erotici in bilico su spade appuntite e sprazzi di carne che invitavano a rovistare in giro: solo chiacchierate mentre si cucinava, dunque si era affaccendati e concentrati sulla famiglia, ah, e giochi incredibili: “quanti fagioli ci sono nel contenitore?”.

Intanto ci facevamo grandi, frequentavamo discoteche a Napoli o sul litorale domizio, c’erano dj innovativi che mixavano “Rumore” di Raffaella Carrà con i brani di Kool & The Gang che tra l’altro avevano costumi uguali a quelli di Raffaella Carrà. Intanto l’Italia giocava in Borsa e si arricchiva, molti amici di famiglia tentavano l’impresa, azzardavano, si mettevano in proprio, qualche volta vincevano, spesso fallivano: non erano abituati al rischio, in loro risuonava ancora la mestizia degli anni ’70, nonostante si ricordavano solo dell’allegria dei sabati sera.

Però dopo anni è stato bello rincontrarli tutti, gli amici di famiglia e i loro figli, quando tornavo a Caserta da Roma. Gli anni ’90. Una specie di Carramba che sorpresa o un Fantastico con ospiti speciali, così come Benigni saltava addosso alla Carrà, noi saltavamo addosso alla nostalgia e ricordavamo i tempi andati, e dicevamo in coro: un po’ di allegria e di leggerezza.

Naturalmente c’era un dopo, cioè un tempo dopo gli incontri e dopo le carrambe, un momento in cui discutevamo di come andava il mondo e di perché non prendevamo nulla sul serio, almeno in Italia: sembrava che all’allegria non corrispondesse mai una riflessione sul dolore, alla risata ridanciana mai l’elaborazione di un lutto. I risultati si vedevano: prima la festa poi i danni, prima gli anni ’80 e tutte quelle bevute poi il dopo sbornia: non c’erano più soldi e si doveva entrare in Europa, avevamo appena cominciato a guadagnare e già ci dicevano, mi sa che la pensione per voi non ci sarà: quanti fagioli nel contenitore?

Poi c’è stata la grande accelerazione del secondo millennio, e che dire, il mondo è migliorato per molti versi, peggiorato per altri, è sempre una questione di misura, in fondo. Ora le canzoni della Carrà sono patrimonio nazionale e cinematografico, così che i suoi poster quelli che qualcuno di noi conservava ancora, ben ripiegati, ecco quelli, via social, sono diventati meme e ogni volta che si forma un meme, lo sappiamo, si procede per imitazioni coatte, quindi nessuno capisce più quale era e che significava un tempo quella matrice, e ogni tentativo di ricostruzione subisce l’influsso e le contaminazioni del tempo.

Ho pensato tutte queste cose quando ho saputo della morte della Carrà, e siccome mi sono sentito un po’ spezzettato e in bianco e nero, mi è venuta voglia di chiamare tutti i vecchi amici di famiglia per ricordare i bei tempi e parlare un po’ della Carrà, ma purtroppo sono tutti morti e niente ho provato un senso di vuoto, in bianco e nero che ha risucchiato tutto, da Trieste in giù.