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Patrick Modiano, alla ricerca del tempo perduto

Einaudi ha pubblicato La strada per Chevreuse, il nuovo contributo alla letteratura di uno dei più meritati Nobel degli ultimi vent’anni, 117 pagine che risolvono il dilemma fiction-non-fiction.

di Giulio Silvano

Sconvolgente la fatica con cui bisogna cercare nelle Feltrinelli il nuovo libro di Patrick Modiano, come se non fosse un evento. Come se si potesse ignorare il nuovo contributo alla letteratura di uno dei più meritati Nobel degli ultimi vent’anni. Tra totem ai morti recenti e saldi annuali al 20% limitati dalla legge Piccoli-Nardella, si cerca la Letteratura come un Diogene che con la lanterna accesa, in pieno giorno, cerca l’uomo. Forse è anche perché oggi è tornata una fandom per i libroni – il nuovo romanzo della Nobel Olga Tokarczuk con le sue 960 pagine è in vetrina e su Instagram – e le cose troppo brevi diventano sospette. Sedici, diciotto, venti euro per meno di duecento pagine? Non ne vale la pena. Forse – ci piace credere – che sia una volontà dell’autore il vivere nascosto tra le mensole dei classici e i tavoli delle novità, come se fosse necessaria una caccia al tesoro, come se la fuga, il nascondersi non sia un atto recluse solo ai personaggi della narrativa modianesca. Come se sia necessario andare alla ricerca del libro, come i suoi protagonisti cercano le proprie origini, per potersi godere queste 117 pagine di soluzione al dilemma fiction-non-fiction.

Perché Patrick Modiano, soprattutto con le sue ultime opere, mescola i ricordi con l’invenzione in un modo così naturale che ci si chiede se i suoi stessi ricordi siano narrativa o realtà. E sembra chiederselo anche lui, non sembra esser certo di nulla. Modiano, nel suo minimalismo, non regala spazi per pietismi e lagne memoiristiche o precisioni biografiche leziose. Nel ricordo non c’è pornografia del dolore. Modiano non fa booktour e poche interviste. Scrive un romanzo ogni due o tre anni. Spesso il protagonista e/o narratore ha il suo nome, altre volte no. È come una Recherche spezzettata e ancora più malinconica di quella proustiana, come se gli eventi della seconda guerra mondiale, di Vichy, dell’occupazione, della resistenza e delle leggi razziali, creassero un’ombra nella vita dei parigini che non esisteva nell’epoca della Terza repubblica, quando un caso come quello Dreyfus, di un antisemitismo che sarebbe dovuto essere bandiera di allarme per i decenni a venire, divideva in due i salotti del faubourg Saint Germain e un nome bastava per individuare un carattere. Ma anche con Modiano siamo alla ricerca di un tempo perduto, ma più che nei ricordi precisi di un’infanzia che è insieme sognante e dolorosa, la ricerca avviene tramite la casualità e le coincidenze, i nomi non sono più quelli degli aristocratici o dei parvenue che cercano di imporsi nei giochi sociali della capitale, ma quelli di personaggi incontrati a caso nei café e nelle spoglie camere degli alberghi ad ore, contrabbandieri e collaborazionisti, ma come in Proust sono comunque fonte di un’esaltazione curiosa. I nomi, come quelli delle cittadine che il giovane Marcel cerca di individuare dai finestrini di un treno che lo porta a Balbec, nell’opera di Modiano hanno un effetto altrettanto magico, ma portano a momenti del passato che, anche se si vogliono individuare, non si riescono poi a digerire del tutto.

Se si googla “La strada per Chevreuse” viene fuori la mappa che porta al piccolo comune sotto Versailles, a un’oretta da Parigi. È ancora troppo lontano per esser considerato banlieu, protetto a malapena dall’esplosiva periurbanizzazione dell’Île-de-France dalle restrizioni paesaggistiche del Parc naturel régional. Solo dopo nel motore di ricerca appare il libro di Modiano, che è uscito da poco per Einaudi nella traduzione di Emanuelle Caillat. Chevreuse in inglese è stato tradotto come Scene of the Crime, ammiccando a quell’atmosfera noir, a volte quasi simenoniana, quasi à la Leo Malet, che fa assomigliare certe scene a quelle di un giallo, all’ambientazione da mistery novel. Il protagonista del libro si definisce uno “spettatore notturno”. La sua Parigi e i suoi dintorni sono spesso strade e androni deserti, a malapena illuminati dai lampioni. A creare questo mood giallistico è soprattutto l’intensificato senso del sospetto che hanno i personaggi, la tendenza a dubitare della verità, sia di quello che ci dicono gli altri sia dei nostri ricordi. «Con il tempo si erano cancellati tutti i punti di riferimento, tanto che i due eventi visti da lontano gli sembravano simultanei e finivano per confondersi tra loro, come due foto diverse unite attraverso un processo di sovrimpressione», scrive a un certo punto.

Jean, il protagonista di La strada per Chevreuse, ricorda personaggi e situazioni fumose di vari passati, dove è palpabile lo straniamento dal nucleo familiare, il continuo rimbalzo tra collegi e case in affitto e camere di hotel, dove personaggi loschi scappano dalla polizia, cambiano nome, lo inseguono fino all’ingresso del metrò. Jean, il protagonista, scrive un romanzo, più per ricordare che non per ambizioni letterarie, come se il romanzo fosse più un tentativo di un “resoconto” per fare ordine nel proprio passato. Questo crea un gioco di matrioske, di ricordi dei ricordi, quasi da multiverso Marvel, in cui i ricordi romanzati e quelli puri vivono paralleli, confondendosi come se fosse stato aperto un portale tra i due mondi. «Mi era sempre piaciuto introdurmi nelle vite degli altri, per curiosità e anche per il bisogno di capirle meglio e districare i fili ingarbugliati delle loro esistenze», diceva il narratore di Inchiostro simpatico, il libro precedente di Modiano. E in questo: «Mentre scriveva il libro e si susseguivano le pagine, un periodo della sua vita si disfaceva, o meglio impregnava le pagine come fossero fogli di carta assorbente».

In quella nebbia perfetta che mescola verità e narrativa, fatti accaduti e personaggi esistenti, fantasie dell’autore e rimembranze lacerate dal tempo, non ci si chiede cosa sia l’autofiction, non è per nulla importante l’etichetta editoriale. Non che Modiano abbia inventato questa forma letteraria, ma ne è il rappresentante più puro, nel senso che l’obiettivo del libro stesso è fare ricerca su se stessi, fare chiarezza sui propri fantasmi più che raccontarli agli altri, similmente a quello che accade nelle opere d’arte di un altro ebreo francese, Christian Boltanksi. Come diceva Modiano in una breve intervista al New York Times: «Non ho mai capito cosa si intenda per “autofiction”. Mi sembra che tutti gli scrittori, che siano romanzieri o poeti, trovino ispirazione da tutto quello che hanno vissuto e osservato prima di trasporre e stilizzare questo materiale».