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Oh Canada, le confessioni di Paul Schrader
Il suo nuovo film è la prosecuzione di un racconto che va avanti da tutta la sua carriera: Schrader parla di colpa, di afflizione, di redenzione e, soprattutto, di uomini soli.

Oh Canada di Paul Schrader è il film su un farabutto passato per santo. Dire che i film di Schrader ruotino intorno alla redenzione, per chi ha visto qualche suo film, è dire un’ovvietà. Anche qui siamo davanti ad una variazione ancora più crepuscolare sul tema. Tratto da un romanzo di Russel Banks scritto poco prima di morire – da cui Schrader aveva già tratto l’indimenticabile Affliction (1997) – qui viene portata in scena la vecchiaia. Leonard Fife (Richard Gere), vanitoso regista di documentari impegnati, accetta la proposta di due suoi allievi di fare un’intervista testamento con loro. Seduto sulla sedia a rotelle, Fife fa i conti con le proprie miserie raccontando alla moglie Emma (Uma Thurman) e al pubblico le bugie su cui ha costruito la sua carriera. Il romanzo da cui è tratto, Foregone, in italiano è stato tradotto come I tradimenti (Einaudi 2022).
Troppo preso da se stesso, dalla propria ambizione, Fife trasforma velocemente il proprio anticonformismo in opportunismo. Usa il suo fascino per tradire, abbandonare, rifiutare e illudere le persone con cui stringeva legami affettivi. Anche il suo coraggio politico è in realtà un fraintendimento. Ma queste potrebbero essere impressioni. In realtà non sappiamo quanto di quel che rivela sia vero, quanto sia frutto della confusione che la malattia gli produce. Non sappiamo quanto la moglie già sappia, in fondo coinvolta anche lei nelle sue piccole e grandi menzogne.
Schrader e Gere sono molto bravi a restituire l’odore e il senso della vecchiaia. Fife si chiede se la giovane assistente del regista che lo intervista riuscirà a sentire, come scriveva Banks, «l’odore delle medicine», della sacca con l’urina e «i pezzettini di feci rinsecchite attaccati al culo». Ma quel che conta è restituire l’impasto di verità e bugie, di confessioni e romanticizzazioni, di asperità del guru e debolezze di un uomo pronto a morire accanto alla donna che, nonostante tutto, gli è rimasta accanto. Il film scorre veloce, l’intrecciarsi e interrompersi delle vicende che Leonard racconta movimentano un’altrimenti facile storia. L’alternarsi nei flashback di Gere con Jacob Elord, che interpreta Fife da giovane, danno un tono vagamente onirico – visto peraltro negli ultimi, grandiosi, Master Gardener e First Reformed. Oh Canada, in ogni caso, rimane amaro e sconsolato – ciò che gli schraderiani si attendono. Forse troppo scarno, come i migliori romanzi ti lascia con la voglia di sapere di più, con la sensazione di essere abbandonati proprio mentre la conoscenza reciproca era iniziata.
Schrader ha più volte detto che il suo metodo di scrittura consiste in un lavoro di tre tempi: far acclimatare con un personaggio, iniziare a far compiere a quest’ultimo azioni lievemente diverse da quelle prevedibili e infine, quando ormai l’identificazione è completa, far deviare il protagonista così che lo spettatore ormai agganciato finisca in luoghi dove non pensava sarebbe mai stato. Chi guarda empatizza con qualcuno di distante, ossia, spesso, con un sé a lui ignoto. Giustifica, o comunque comprende, le ragioni di un altro. In questo caso, forse, tanto le ragioni dell’opportunismo di Fife, quanto la violenza con cui si racconta, anche al costo di ferire la moglie.
Oh Canada – e il romanzo Foregone – per il tema del rapporto tra rispettabilità di una vita e bugie che l’hanno costruita, ricorda La macchia umana di Philip Roth. Ma se nel romanzo di Roth c’era un’autoconfessione – per quanto rivolta al romanziere Zuckerman – qui c’è un testamento pubblico in video, un autodafè – forse il culmine della vanità. Non sarebbe bastato dire alla moglie Emma quel che non le aveva detto fino in fondo. È il farlo davanti a una telecamera che testimonia la profondità del rapporto, secondo Fife. Come in Roth però c’è il fare i conti con i falsi sé che si vendono per stare in società, per costruire una professione, spesso contro gli affetti amorosi, amicali o familiari che siano.
Jean Starobinski, in L’inchiostro della malinconia, ha analizzato come la mancata adesione a ciò che si sente di vero dentro di sé porti a soccombere. Quando lo sdoppiamento si fa intollerabile, si crolla. Forse così si può interpretare il rapporto tra confessione e redenzione in Oh Canada. Prima di morire, per non morire due volte, Fife vuota il sacco. Vive attraverso l’esibizione delle parti peggiori di sé. Almeno alla moglie lo deve, forse anche al pubblico senza il quale non avrebbe avuto successo e gloria.
Come noto, Schrader si occupa prevalentemente di uomini soli – la trilogia American Gigolo, Lightsleeper e The Walker, l’ultima con The Card Counter, First Reformed e Master Gardener. In quattro su sei il protagonista tiene un diario e ha, come detto, una colpa da espiare o un trauma o una nevrosi da superare. Tormentati, cercano di essere persone decenti, spesso senza riuscirvi. Scrivono un diario, riflettono ad alta voce per provare a dare un senso. Che spesso sfugge – come nella trama di The Walker, confusa come gli intrecci tra economia e politica a Washington. O come in Affliction, dove empatizziamo con qualcuno che ci aveva portato assieme a lui in una tormenta di paranoia e allucinazioni. Ammiriamo il suo senso di giustizia e invece finiamo dentro una distorsione psichica che termina in tragedia.
La delusione è un altro tema di Schrader: come il poliziotto di provincia Wade Whitehouse (Nick Nolte) non era l’eroe solitario vittima di un raggiro, così Fife non è il profeta disarmato del documentario impegnato. Similmente, in Hardcore, seguiamo un padre, di fede calvinista (George C. Scott), che cerca la figlia perduta nell’industria del porno. Soffriamo con lui nello stridere tra i suoi valori e la situazione in cui è finito. Ma forse la figlia, a sua volta, non è stata raggirata. Ha semplicemente cercato una via di fuga da un padre opprimente e bigotto. In Blue Collar, ci uniamo alla rivolta senza qualità di tre lavoratori di Detroit che rubano la cassa al sindacato che non li difende. Annichiliti dalla catena di montaggio sanno che padroni e sindacalisti collusi giocano a metterli gli uni contro gli altri. Il film si chiude con la voce fuori campo di uno dei tre operai, Smokey James (Yaphet Kotto), che afferma. «Mettono le vecchie leve contro i nuovi arrivati, i giovani contro i vecchi, i neri contro i bianchi: è sempre stato così». Il messaggio è tra l’hobbesiano e il marxista, come aveva scritto James Lewis Hoberman sul New York Times. La soluzione non è politica, e soprattutto non c’è – come notato criticamente da alcuni operai e attivisti interpellati da Cineaste – The art and politics of the cinema, poi tradotta sulla rivista operaista Magazzino.
Anche il penultimo film di Schrader, The Master Gardener, incarna una particolare forma di cinema politico – non facile, provo di una tesi univoca, duro e senza consolazione: diverso da quelli in cui la morale è che i buoni siano tali, i cattivi cattivi e che un giorno si vincerà, non si sa bene come. È un cinema politico perchè parla di classe, “razza” e genere, senza assumere una bontà angelica degli individui, attaccando il moralismo senza scadere nel relativismo. Il film ruota intorno ad un protagonista che è una sorta di incrocio tra un Simon Wiesenthal ex nazista redento e un Hubert di Lolita privo di perversione e con la cultura di un redneck ripulito invece che di un intellettuale europeo. Struggente, Schrader ribalta ogni cosa e fa indossare lo slogan “We should all be feminist” di Chimamanda Ngozi Adichie a una guardia, tanto simpatica e hipster quanto protagonista della scena più dura e disperante del film – sull’impossibilità di un’amicizia. Sincero, spietato, durissimo, Schrader si concede anche parti oniriche commoventi, intense e liberatorie.
Anche First Reformed ha un incedere simile: un uomo disperato cerca di aiutare il prossimo come può. Non riuscendoci, sopraffatto dal senso di colpa, nonché dal rischio dell’apocalisse climatica, si fa carico della missione interrotta della persona che non è riuscito a salvare. Per portarla a termine decide di porre fine alla sua vita – d’altronde già spacciata. Finchè non irrompe l’imprevisto, un possibile amore. Schrader è figlio di un pastore luterano, ha scritto una tesi di dottorato sul trascendente nel cinema, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer (Donzelli) – e a Bresson ha dedicato diversi finali dei suoi film (American Gigolo, Lightsleeper e The Walker). Ha fatto il critico cinematografico (con l’aiuto della critica del New Yorker Pauline Kael) e infine è diventato uno dei migliori sceneggiatori di Hollywood, lavorando con Martin Scorsese. Raging Bull e Taxi Driver o Bringing out the Dead li ha scritti lui. E il tema è sempre lo stesso: se la colpa è un fatto, l’afflizione un destino, la redenzione una possibilità, come si fa a vivere una vera vita nella falsa?