Stili di vita | Moda

La Cool Britannia ai tempi di Brexit

L’ultimo numero di British Vogue, intitolato “Great Britain” celebra creativi e personalità britanniche. Ha ancora senso nel 2017?

di Silvia Schirinzi

Quando Vogue Italia ha festeggiato il numero di settembre con il party organizzato da Riccardo Tisci, si sentiva tra gli addetti ai lavori una certa eccitazione. Sarà perché le settimane della moda sono sempre più noiose e anche le feste sembrano essersi ormai standardizzate, ma l’idea dell’evento esclusivo ha provocato per qualche giorno fibrillazione nelle chat di gruppo e lunghi thread di mail per agganciare un invito. Senza esporsi troppo, sia chiaro, ma si vedeva gente aggrottare la fronte nello scoprire di essere nella lista delle undici e mezzo piuttosto che in quella delle nove e mezzo, valutare se dare peso alle direttive sul dress-code oppure se presentarsi in divisa Balenciaga/Vetements, che poi era tutto quello che Tisci cercava di evitare. Era un festa glamour, era sì Tom Ford e no Gosha Rubchinskiy. Alla fine il party c’è stato e l’obiettivo era riuscito: far crescere l’aspettativa nei confronti della nuova direzione creativa capitanata da Emanuele Farneti. Lo stesso numero, intitolato “Ciao Italia!” e con Mariacarla Boscono in copertina, era una celebrazione dell’Italia della moda ed è andato sold-out. Ancora meglio riuscito il numero di ottobre, che declinava in maniera intelligente il tema della bellezza femminile e dell’invecchiare, ma è innegabile che è bello poter dire, per chi ama i giornali, di aver voglia di comprare di nuovo Vogue.

La stessa operazione la tenta ora Edward Enninful da British Vogue, che arriva oggi nelle edicole con la modella e attivista Adwoa Aboah in copertina, fotografata da Steven Meisel in un close-up squisitamente retrò. Il numero si chiama “Great Britain” ed è, anche qui, una celebrazione di quella Britannia che s’è inventata la parola cool e che, dopo Brexit, corre il rischio di affogare nella «irrilevanza mondiale», come si legge in un recente editoriale sul New York Times. Dentro ci sono un sacco di cose interessanti e le clip social che girano in queste ore sono particolarmente utili a inquadrare (per quanto possibile dal numero pilota) la nuova direzione del giornale. C’è Enninful che intervista Adwoa Aboah e insieme parlano di rappresentazione femminile, tanto per cominciare: niente di particolarmente profondo, meglio specificarlo, e sarebbe opportuno sviscerare l’etichetta di “attivista” che di questi giorni si regala a chiunque abbia l’eleganza di non esprimere opinioni fuor dalla morale comune su Twitter, ma Aboah, piaccia o meno, è una scelta azzeccata. Perché è una modella non conforme (è bassa, per esempio), perché è inglesissima, perché ha fondato Gurls Talk, che è una specie di piattaforma-supporto che promuove l’inclusività. E se la linea tra la celebrazione di se stessi e il femminismo social si assottiglia sempre di più, non significa che il dibattito sulla rappresentazione debba ritornare al punto di partenza, ovvero quello del modello unico. Ci sono Zadie Smith, Steve McQueen, Christopher Bailey, Grace Coddington. E poi c’è lei, la guest editor Naomi Campbell, a ricordarci come sono fatte le vere modelle. Armata di appunti e in total look Alexander McQueen, intervista il sindaco Sadiq Khan nella City Hall. Sono coetanei (classe 1970), sono entrambi cresciuti a South London da figli di immigrati, sono il manifesto migliore della Londra dell’immaginario comune, quella aperta e cosmopolita, quella che ha votato per lo Stay e non per Brexit.

Il cambio della guardia da British Vogue non è stato certo senza intoppi: all’arrivo di Enninful, l’ex fashion director Lucinda Chambers aveva vergato di sua mano una incendiaria lettera-sfogo su Vestoj Magazine, mentre l’ex direttore Alexandra Shulman si era chiesta polemicamente su Business of Fashion se essere amico delle celebrity e avere un sacco di followers su Instagram fossero requisiti sufficienti per essere un grande editor. L’eredità di questi magazine, d’altronde, è enorme, e ha a che fare tanto con la creazione di un immaginario quanto con la ridefinizione del loro ruolo nel panorama editoriale. È legittimo chiedersi, allora, che forma prenderà il lascito di Franca Sozzani nel nuovo Vogue Italiacome ha scritto Maria Luisa Frisa su D La Repubblica qualche settimana fa. È legittimo chiedersi anche cosa significhi celebrare quella cool Britannia che non c’è più – per di più a pochi mesi di distanza dal Creativity Issue di i-D Magazine, che aveva lo stesso tema – in un momento in cui i due capisaldi della London Fashion Week, quali sono Burberry e Topshop, vivono un momento di crisi identitaria. Christopher Bailey, nonostante il pregevole lavoro svolto negli anni, è fuori dal marchio e sebbene il tanto chiacchierato arrivo di Phoebe Philo sembri a tutti la migliore delle soluzioni, per ora è una voce non confermata. La direzione creativa di Topshop, intanto, è nelle mani dello svedese David Hagglund, e non sembri un caso. Le bandiere del cool, infatti, appartengono oggi ad altre macro aeree fuori dalla vecchia Europa del lusso: Africa, ex Unione Sovietica, Scandinavia. E agli inglesi, come agli italiani e ai francesi, è richiesto di andare oltre la celebrazione del passato.