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Lasciate che i bambini vadano a fare la spesa

Old Enough, storico programma giapponese da poco arrivato su Netflix, mette alla prova il culto dell'infanzia che ormai domina in Occidente e, soprattutto, i nervi dell'apprensivo genitore mediterraneo.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Questa settimana, ho guardato su Netflix Old enough, uno show giapponese vecchio trent’anni e balzato presto tra le dieci serie più viste della piattaforma, in cui a bambini dai 2 ai 6 anni vengono affidate missioni complicate anche per me, missioni che prevedono strade trafficate da attraversare, liste della spesa da memorizzare, chilometri da percorrere in salita portando pesi e intense relazioni con mercanti e passanti. Il programma è delizioso, anche per gli scorci che offre di piccoli villaggi, grandi mercati del pesce, templi o cucine nascoste dietro porte di carta di riso. I cameramen seguono discretamente bambini che rovinano sull’asfalto, si distraggono a inseguire cani randagi, o attraversano ettari di frutteti, e di solito non li notano, ma a volte sì, e allora chiedono loro indicazioni o aiuto, senza accorgersi della macchina da presa.

In uno degli episodi, della durata media di 10 minuti, due bambini di 4 anni, dopo aver svolto altre commissioni, salgono una scalinata di 202 gradini per raggiungere un tempio shintoista, mentre mio figlio, loro coetaneo, ha ancora i cancelletti con la sicura che bloccano l’accesso alla scala a chiocciola. In un’altra puntata, una bambina di neanche cinque anni passa trenta minuti, al calar della notte, a girare le radici di una verza per staccarla dal terreno e portarla alla sorella malata, mentre i miei figli preadolescenti, quando noi grandi abbiamo avuto il covid, non hanno mai pensato non dico di uscire a farci la spesa, ma neanche di staccare la Switch per andare incontro al fattorino di Gorillas.

In Italia, il format (oggi tradotto da Netflix col sottotitolo Una giornata da grande) era già stato tentato nel 2007 col titolo Fai attenzione… mi raccomando: un ammonimento improntato alla tutela delle ansie del genitore mediterraneo, unite a quelle del genitore elicottero, che non va a letto tranquillo se non ha refreshato un’ultima volta l’app del registro elettronico.

Il titolo originale giapponese, invece, è ispirato a un albo illustrato del 1976 su una bambina che veniva mandata a prendere il latte, atto che notoriamente in Italia rappresenta non l’assunzione di un obbligo, ma una vile scusa per vedere il fidanzato. Il titolo originale, dicevo, contiene la parola Otsukai, cioè prima commissione, la quale nella cultura giapponese è vissuta come rito d’iniziazione, mentre in Europa, dove anche altri Paesi hanno tentato di replicare il format, ha incontrato da un lato l’apprensione dei genitori, dall’altro il tono ironico di conduttori che trattavano l’avventura solo come una candid camera. In Giappone c’è una vera e propria cultura dell’autonomia infantile, ed è normale incontrare in metropolitana bambini di sei anni che attraversano seri la città diretti a scuola con in spalla tutto l’occorrente per trascorrere la giornata da soli. Il tasso di criminalità è basso, gli automobilisti sono sensibilizzati al passaggio di comitive di minuscoli studenti che spesso, come nello show, sventolano bandierine gialle per far notare la loro presenza sulle strade. Il senso della comunità è alto negli stessi bambini, che in tutto il Paese si fermano a scuola dopo l’orario delle lezioni per pulire le aule (e non sono certo poi dispensati dai compiti, grazie a decaloghi di maestri alternativi).

Sono sicura che molti genitori di oggi, che spremono i loro figli tra corsi d’arpa e weekend intensivi di sci, troverebbero vergognoso impiegarli per le pulizie di casa e denuncerebbero gli insegnanti che osassero metter loro una scopa in mano. Il genitore medio infatti è un incrocio tra un manager, uno sherpa e un bodyguard iperattivo, che si impiccia perfino delle equazioni assegnate per casa, apre chat dedicate a qualsiasi esperienza filiale cada fuori dal suo radar e vede le autonomie concesse ai figli come una forma colpevole di disinteresse che rischia di provocare incidenti letali.

In Occidente, oggi, abbiamo un modo strano di dare fiducia ai bambini. Per esempio, c’è la tendenza a coinvolgerli nel cosiddetto decision making: l’arcaica e seccante pratica di fare continuamente scelte, e che oggi importiamo con questo nome dagli Stati Uniti ed estendiamo alla pedagogia emozionale. Io scaglio pietre, ma sono la prima peccatrice: ho sempre chiesto l’approvazione ai miei figli non solo per le vacanze, ma anche per la scelta della tovaglia. Mia madre mi disse una volta, vedendo che qualcuno sul tram lasciava il posto a un poppante: sono stata bambina in un mondo che rispettava gli anziani, e sono vecchia in un mondo che idolatra i bambini. In effetti, la nostra idea di chiedere ai figli l’opinione su un trasloco forse li fa sentire considerati come persone ma, se non è bilanciata da una serie di responsabilità, finisce per renderli dispotici. Ragion per cui, poi, io non vedo l’ora di lasciarli soli a casa, a rischio che vada a fuoco.

Ho lavorato e lavoro con entusiasmo per media company americane rivolte all’infanzia, progressiste nei contenuti e avanguardiste nel modello di business, e lo so che i bambini vanno trattati come cittadini del futuro, e che l’attivismo sin da giovani rinforza il carattere e rende più significativa la percezione dell’esistenza. Il problema è che questi bambini, con la T-shirt che dice “Dreamer of the future” e il cellulare di mamma sempre in mano, sono troppo impegnati a fare i loro edit di TikTok e ad allenarsi per le regate, troppo venerati e individualisti per pensare di doversi occupare della casa, dei pasti, dei loro familiari o delle squallide rogne della vita vera: imprese poco performative per i loro standard di gratificazione immediata. Sono troppo viziati dalle app per orientarsi nel loro quartiere, e troppo impauriti dalle challenge per uscire a far pisciare il cane di sera.

Siamo noi, che controlliamo di sfuggita i loro Google account da under 13, a sentirci più sereni a saperli seduti in camera, anziché per strada con lo skate o il pallone. In fondo, ci sentiamo più in controllo. Concediamo allora facilmente una fiducia più subdola del permesso di uscire: quella del tempo di connessione. E per restringere il controllo sulla loro incolumità fisica, perdiamo quello sul linguaggio a cui sono esposti, sulle pose e sugli ideali che assorbono mentre li teniamo sotto chiave. Così, ragazzini allevati nelle loro camerette dai rapper di strada, col loro culto del denaro, della loro donna e dell’onore non sono poi liberi di andare al supermercato, di farsi un uovo o di perdersi per le vie della città al tramonto.