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Le mostre immersive sono una cagata pazzesca

L'idea di entrare nei quadri di Van Gogh o Dalì sembra attirare un pubblico sempre più numeroso, ma qual è il valore culturale di queste esperienze?

di Riccardo Conti

Non me ne vorranno i seguaci della setta Love Has Won, convinti che proprio accanto alla loro Madre Dea sieda Robin Williams (per saperne di più si consiglia la visione del documentario Hbo Love Has Won: The Cult of Mother God, 2023 su Prime Video), ma io ho smesso di provare stima verso l’attore americano dopo film come Toys (1992), Patch Adams (1999) ma soprattutto Al di là dei sogni (1998). Quest’ultimo in particolare è uno dei film che per molti versi ha inaugurato un intero filone, se non addirittura un’estetica, che ho sempre trovato respingente: quella dell’immersione nel quadro, in vari immaginari della storia della pittura. Attenzione però: non si trattava in quel caso, come in altri successivi, di un’immersione intellettuale, da sindrome di Stendhal, era piuttosto una restituzione magniloquente, iperreale e iper-satura di temi visivi saccheggiati, nei momenti migliori da Monet, in quelli peggiori da Thomas Kinkade.

Insomma, la pellicola di Vincent Ward inaugurava a modo suo il paradigma estetico del kitsch impressionista di massa, quello che spaccia per raffinatezza le più pacchiane citazioni, oggi rese totalmente mimetiche come sappiamo dai mescoloni sublimi di software come Midjourney, DALL-E o Stable Diffusion. Il proliferare delle grandi mostre “immersive” nell’ultimo decennio è un fenomeno che ha molto a che fare con alcuni di questi principi, ma che allo stesso tempo chiede di essere approfondito e non derubricato snobisticamente a intrattenimento per un pubblico poco colto.

Un recente articolo pubblicato sul Guardian a firma di David Batty ospita una serie di punti di vista che vede sostanzialmente la contrapposizione tra artisti che reputano mostre immersive, come quelle ispirate ai grandi artisti del passato, definendole “arraffa soldi”, poiché sfrutterebbero varie tecnologie non particolarmente innovative (nei maggiori dei casi si tratta di video mapping) senza lasciare spazio all’innovazione e soprattutto con poco rispetto verso l’eredità artistica degli autori citati. È in fondo questo il vero e proprio punto dirimente circa la liceità di tali operazioni? Da una parte l’innegabile capacità che i display interattivi, gli effetti speciali, gli ambienti immersivi hanno nel coinvolgere un pubblico trasversale e molto spesso non propriamente alfabetizzato ai codici degli spazi espositivi e dei linguaggi artistici e dall’altro il rispetto intellettuale verso la poetica di autori, nel più dei casi morti, che non possono dire la loro sull’utilizzo “espanso” del loro lavoro. Sempre nel pezzo di Batty si rileva poi come Fever, la piattaforma di booking dietro a successi commerciali come Van Gogh: The Immersive Experience, abbia dei prezzi non proprio popolari per mostre che solitamente coinvolgono più membri di una famiglia. A questa obiezione la general manager di Fever per il Regno Unito ha sostenuto che i costi dipendano dalle tecnologie impiegate e che con gli introiti delle mostre più popolari possano poi finanziare i loro progetti più sperimentali, ma soprattutto che operazioni come quelle di Van Gogh facilitino la comprensione della sua arte ai visitatori.

Vale quindi la pena dare un’occhiata al portfolio di questa società con sede a New York, che propone veri e propri format di “experience” prodotte dalla Exhibition Hub Entertainment nelle principali capitali del mondo, e che al momento ha attiva una serie di eventi e mostre proprio a Milano. Oltre a Van Gogh: l’esperienza immersiva, figurano anche Inside Monet VR Experience, presentata al pubblico in questi termini: «Una guida e un attore ti accompagneranno in un viaggio tra reale e virtuale: l’Arco della Pace e Parco Sempione si fondono con le pennellate dell’artista e, per la prima volta, sarai dentro le cinque opere di Monet grazie alla Realtà Virtuale». Oppure l’annunciata Dalí Cybernetics: «Hai mai sognato di entrare in un quadro? Fai un viaggio impressionante nell’incomparabile universo di Salvador Dalí, il genio artistico dietro una miriade di capolavori surrealisti». Ma anche esperienze IRL come la visita al Cenacolo di Leonardo proposto nel pacchetto: L’Ultima Cena: Biglietto Salta la coda + Visita guidata.

Tenendo a distanza ogni pregiudizio, ciò che mi colpisce di queste e altre iniziative è il riportare come un valore assoluto, persino più del nome dell’artista, la ripetizione del dato, il successo confermato dal numero di visitatori, i vari primati che quella o quell’altra mostra si intesterebbero nell’offrire sempre di più e prima di tutti gli altri. Tutto diventa un numero in un loop narrativo additivo e ipertrofico. Un articolo pubblicato nel giugno 2021 sull’Independent recitava: «Tutto a New York è più grande, anche la sua mostra di Van Gogh». Contrariamente a quanto si possa immaginare, il titolo non alludeva a una retrospettiva del pittore olandese al MET e nemmeno alla Van Gogh: The Immersive Experience appena citata. Si trattava invece di Immersive Van Gogh, la mostra creata da Massimiliano Siccardi e coreografata da David Korins, famoso per le sue scenografie di musical a Broadway, ma attivo anche negli allestimenti di blue-chip gallery come Gagosian. Anche in questo caso, la comunicazione ufficiale della mostra, che a New York occupava uno spazio di più di 6.000 metri quadrati in Lower Manhattan, puntava sull’ipertrofia dei numeri: «500.000 piedi cubi di proiezioni, 60600 frame video, 90000000 di pixel» e così via.

Siccardi è un’autorità assoluta nel mondo delle mostre immersive e può vantare altri successi di pubblico come Immersive Klimt  e Frida: Immersive Dream sull’artista Frida Kahlo. In un’intervista su Artribune del 2022 alla domanda se considerasse le sue installazioni come opere d’arte indipendenti rispetto all’opera di Van Gogh, rispose: «Sì, pensiamo che l’installazione immersiva sia un’opera d’arte. Lavoriamo sui grandi pittori perché è più facile: l’iconografia è già nota, c’è già una narrazione». Se l’obiettivo non è tanto quello di esplorare l’arte di Van Gogh quanto di utilizzare la sua figura come un richiamo per il grande pubblico, allora si spiega questo proliferare in tutto il globo di simili esperienze immersive. Già nel 2021 Christina Morales commentava sulle pagine del New York Times la sovraproduzione di show che hanno iniziato a fioccare simultaneamente nelle città americane, con profili sfumati difficili da cogliere già dai titoli; Imagine Van Gogh: The Immersive Exhibition, Immersive Van Gogh Exhibit, Van Gogh: The Immersive Experience e ancora; Beyond Van Gogh. Un’invasione di cloni che generò confusione e lamentele tra i visitatori che avevano acquistato biglietti online, confondendo tra di loro le varie esperienze.

Esiste ormai una genealogia precisa di queste mostre che risale  al 2008, anno di inizio della serie di operazioni virtuali su Van Gogh con la prima Imagine Van Gogh: The Immersive Exhibition creata da Annabelle Mauger, che sfruttò un format espositivo brevettato da suo suocero, conosciuto come Image Totale. A quanto pare, come per gemmazione, sono nate tutte le altre esperienze simili che abbiamo visto moltiplicarsi in tutto il mondo e che hanno raggiunto un ulteriore picco di notorietà grazie all’episodio della fortunata serie tv Netflix Emily in Paris, intitolato Faux Amis (2020), che vedeva la protagonista visitare proprio una delle Van Gogh experience.

Tornando a Milano, al Mudec si è conclusa lo scorso mese la mostra Vincent Van Gogh, Pittore Colto. È stata una mostra preziosa, anche per chi ha già avuto modo di vedere nei grandi musei internazionali le tele del pittore, perché il gruppo di curatori composto dallo storico dell’arte Francesco Poli, la ricercatrice Mariella Guzzoni e Aurora Canepari, conservatrice del Museo d’Arte Orientale di Genova, hanno assicurato alla mostra un taglio preciso, scientifico e insieme aperto a un pubblico di non addetti ai lavori, grazie a testi e guide lungo tutto il percorso.

Ho chiesto a Marina Pugliese, storica dell’arte, museologa specializzata in conservazione del contemporaneo e direttrice del Mudec, il suo parere circa le mostre immersive dedicate ai giganti dell’arte: «Non è del tutto negativo il fatto che famiglie con bambini o un pubblico che normalmente non entrerebbe in una mostra passi invece lì il proprio tempo. L’importante è il rigore scientifico dell’operazione che fai, come la costruisci, l’onestà intellettuale che applichi, soprattutto quando si tratta di lavorare con un autore che non c’è più e che magari non sarebbe stato d’accordo nel vedere utilizzata così la sua arte; esiste un diritto morale dell’artista che tra l’altro è un diritto sancito dalla convenzione di Berna».

Marina Pugliese è un punto di riferimento nello studio degli “ambienti” come dispositivo artistico. Ha curato mostre come quella sugli ambienti di Lucio Fontana ricostruiti all’Hangar Bicocca, premiata come Best Modern Art Solo Exhibition nel 2018 ai Global Fine Art Awards di New York, e anche la mostra appena conclusa Inside Other Spaces. Environments by Women Artists 1956 – 1976 all’Haus der Kunst di Monaco. Quest’ultima è stata curata insieme ad Andrea Lissoni e Anne Pfautsch, godendo di enorme successo di pubblico di tutte le età, attirati dagli ambienti sperimentali creati da artiste che non solo hanno fatto la storia di questo medium, ma hanno anche avuto un ruolo pionieristico nell’arte femminile. «La proposta di mostre e opere di alcuni artisti può anche essere criticata come “un vincere facile” per la loro apparente immediatezza; eppure i contenuti non mancano», spiega Marina Pugliese. «Penso, ad esempio, all’opera “Penetración/Expulsión (del Fluvio Subtunal)”, 1970, dell’artista femminista argentina Lea Lublin nella mostra a Monaco: è un tubo di plastica colorato in cui il visitatore entra, lo percorre e che anche i bambini hanno molto apprezzato. Ma al di là dell’aspetto apparentemente ludico, l’opera è una metafora della dittatura di Juan Carlos Onganía.» Continua poi la curatrice: «Come in tutte le cose, come anche nei quadri, ci sono sempre vari livelli di lettura e di penetrazione interpretativa che dipendono dalla cultura di chi guarda, certo, ma anche dalla correttezza della proposta. Se tu mi vendi una mostra di Van Gogh semplicemente perché sono tutte esperienze immersive e non c’è un solo vero dipinto, questa diventa un’esperienza che non c’entra più nulla con la sua opera, ma diventa mero sfruttamento. In tal senso è deleterio ed è preoccupante il fatto che si stiano sviluppando un così grande numero di queste mostre; bisogna insomma tenere la guardia alta e valutare caso per caso».

«Se mi vendi una mostra di Van Gogh semplicemente perché sono tutte esperienze immersive e non c’è un solo vero dipinto, questa diventa un’esperienza che non c’entra più nulla con la sua opera, ma diventa mera sfruttamento»

Il business delle mostre immersive riguarda quindi una moltitudine di aspetti, che certamente coincidono anche con la macro-tendenza antropologica e cognitiva che vede il pubblico portato all’interazione e alla ricezione ininterrotta di stimoli e sollecitazioni. In questa prospettiva, non c’è dubbio che quei percorsi virtuali mettano al centro lo spettatore e non più l’opera, che spesso proprio non c’è più, rendendo tali format replicabili in diversi spazi nel mondo, anche contemporaneamente. Senza contare che le tecniche impiegate, per quanto costose, richiedono un budget infinitamente minore rispetto alla realizzazione di una mostra tradizionale (basti pensare alle assicurazioni e al trasporto delle opere). C’è poi un aspetto che personalmente avverto come deludente attorno a queste operazioni: se il loro portato di meraviglia e il loro valore risiede principalmente nella supposta “innovazione” implicita nella tecnologia che le manifesta, c’è da considerare che tali tecnologie possono diventare obsolete in tempi rapidissimi, rendendo il valore di “novità” estremamente relativo.

Rimane  in campo l’aspetto ludico, partecipativo, evasivo, non diverso dell’esperienza di un parco a tema, un modo di pensare allo spazio espositivo che, a ben vedere, fu proprio delle mostre oggi considerate fondamentali come This is Tomorrow (1956) alla Whitechapel Gallery di Londra, che prendeva spunto dalle fun house. Del resto, sarà capitato a ciascuno di noi anche nei contesti più paludati e istituzionali come nelle Biennali e nelle grandi fondazioni private dedicate all’arte di avvertire sempre più il conformarsi di strategie audience-oriented, a una certa inclinazione per opere e display instagrammabili, oltre a una conclamata tendenza verso operazioni che mirano al format delle “grandi mostre” e alla conseguente bulimia dei numeri dei visitatori, riportati come prova del successo di tali iniziative.  È evidente cioè la necessità di istituzioni autorevoli di coinvolgere un pubblico sempre più ampio, lo stesso che trova intriganti le varie experience virtuali, stia generando una certa risposta negli spazi tradizionali dell’arte.

Sempre Marina Pugliese, a proposito delle mostre in VR: «Magari saranno fenomeni che con il tempo dovremo contrastare, perché l’immersività sta diventando una sorta di ossessione. Penso a come, ad esempio, gli occhiali di Apple potrebbero cambiare ulteriormente tale scenario. Ipotizzo davvero che a un certo punto ci potrà essere una sorta di luddismo in generale rispetto all’utilizzo costante di dispositivi, per cui si ritorni a una sorta di stile “romanico” dove sentiremo la necessità di un rapporto intimo diretto e uno a uno con l’oggetto e non mediato».

Insomma, appare chiaro che in una forma o nell’altra il mondo dell’arte debba aprire un dialogo costruttivo, non tanto con le mostre immersive ma con il loro pubblico, cercando innanzitutto di capire se quel profilo di visitatori sia realmente interessato all’immaginario dell’artista evocato (e all’arte in generale), oppure se la partecipazione sia totalmente svincolata dal tema culturale, se insomma non ci sia differenza tra Van Gogh e una escape room in VR. Allora forse dovremmo immaginare sempre di più esperienze alla Night at the Museum o Jumanji (non a caso entrambi con Robin Williams), dove il rischio non è tanto quello di immergere il visitatore, ma di sommergerlo, di blandire le sue più immediate emozioni e il suo consenso, cosa che l’arte vera non fa mai. Lo sapeva Van Gogh, che nella sua carriera vendette un solo quadro e si suicidò a 37 anni.