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Mark Lanegan, maledetto suo malgrado

È morto a 57 anni l'ex leader degli Screaming Trees: icona del grunge e sopravvissuto agli anni '90, è stato un artista di immenso carisma, capace di andare oltre le pose e la retorica che così spesso banalizzano i grandi del rock.

di Federico Sardo

Foto di Marco Annunziata/Flickr

Del cordoglio social per Mark Lanegan mi ha colpito soprattutto la varietà delle canzoni scelte: oltre alle band di cui ha fatto parte, ho visto saccheggiare almeno i primi sei album di una carriera solista ormai trentennale. Personalmente ho scelto “Where Did You Sleep Last Night”, perché mi è sempre piaciuta, per il legame con altri due maledetti (Lead Belly prima e Cobain poi), per l’interpretazione, perché sta nel suo disco che ho comprato per primo, ma allo stesso modo avrei potuto optare per “Borracho” o per tante altre.

Ho cominciato a interessarmi molto alla musica in un periodo in cui ancora sembrava necessario approfondire e “studiare” il passato, quindi i gruppi grunge, fenomeno che era finito da pochi anni, li ho coperti tutti, ma fatto salvo per i Nirvana (che sono stati un altro tipo di avvenimento globale, più simile ai Beatles) non è mai stato la mia cosa. Mark Lanegan era uscito vivo da quegli anni, travalicando il genere di cui era una delle icone, una di quelle rimaste in vita. Ne usciva ammaccato e pieno di demoni, ma con una carriera solista che non è una bestemmia ritenere migliore di quella della band che lo ha reso noto. Era diventato un crooner, un grande autore, un cantautore americano. Le radici erano lì, ce le aveva addosso, ma di fatto era diventato uno di quelli che potevano fare quello che volevano. Anche al di là di band e arrangiamenti: voce e chitarra, voce e piano, puro songwriting a tenere in piedi tutta l’impalcatura. Sono in pochi a riuscirci, o quantomeno a riuscirci per davvero, con credibilità, e non come fosse un lungo finale di una carriera dove il meglio è stato dato molto tempo prima. Certo, sono in pochi ad avere quella voce e quel vissuto. Bastavano quelli per dare credibilità a tutto. Spesso il maledettismo è una posa. Una posa anche rispettabile, fondante nella storia del rock. Quello che aleggiava su Lanegan era invece una maledizione. Non era la posa del maledetto, era essere maledetto suo malgrado, in un senso più vicino al significato della parola stessa.

Che collaborasse con i Queens of The Stone Age o apparisse nei Mad Season, che facesse un disco con Isobel Campbell o con Greg Dulli, a tutto quello che toccava donava un’aura fortissima, quella di uno che aveva visto l’inferno e aveva la voce giusta per raccontarlo. Ci si affezionava a Lanegan, come dimostrano le testimonianze di lutto che stanno invadendo i social network, anche in numero inaspettato rispetto all’effettiva fama del personaggio. Un personaggio di culto, sentito come un segreto per pochi, autore di dischi da tenersi stretti e non pubblicizzare troppo, come raccontava nel 2006 la vicenda del “lurido clerk” in “Tono Metallico Standard” degli Offlaga Disco Pax. Un cordoglio diffuso che è anche un’altra dimostrazione di come sia difficile lasciare andare gli anni Novanta.

È un cliché dire che un artista stia tutto nel carisma, nell’atmosfera che si porta dietro, nel modo in cui è in grado di cambiare l’atmosfera di una stanza, però è difficile pensare Lanegan senza il peso di una vita complicata stampato addosso, e soprattutto è difficile pensare le sue canzoni fuori dal contesto che lui stesso rappresentava. Quel contesto l’aveva raccontato nel 2020 in un’autobiografia (Sing Backwards and Weep) in grado di spezzarti in due. Un anno fa era uscito anche un memoir (Devil in a coma) sulla sua esperienza con il Covid: prima negazionista, convinto che il virus fosse telecomandato dai potenti, che sorvegliavano lui e la moglie, attraverso il 5G. Poi la malattia lo aveva colpito duramente, in un quadro di salute già fortemente compromesso dai danni che decenni di alcolismo ed eroina gli avevano lasciato in eredità. Sul palco portava se stesso, quella voce, quella faccia, la sigaretta e l’asta del microfono. L’ho visto dal vivo più di una volta ma non ci ho mai parlato.