Stili di vita | Moda

Tutti gli uomini di Parigi

Da Louis Vuitton a Celine: cos’è successo nei cinque giorni di sfilate.

di Silvia Schirinzi

Un modello sulla passerella di Celine. Foto di Pascal Le Segretain/Getty Images

Le sfilate di Parigi sono iniziate con lo spostamento dello show di Dior e il timore di ulteriori stravolgimenti causati dal clima che si respira da mesi nella capitale francese, rompendo così quell’efficienza nel costruire le settimane della moda che noi italiani non siamo mai riusciti a copiare. Alla fine, però, è andato più o meno tutto secondo i piani, e i Gilet Gialli si sono visti più nei comunicati stampa (e nelle recensioni) che altrove. Uno dei pochi designer a citarli esplicitamente è stato Simone Porte Jacquemus, che per la sua seconda collezione maschile si è ispirato alla quotidianità “rurale” (di provincia, diremmo noi) delle colline che circondano Montpellier. «Sono cresciuto con queste persone, questi Gilet Jaunes, e capisco la loro sofferenza» ha detto, prima di aggiungere che forse una sfilata, o meglio la sua sfilata, non è il luogo giusto per lanciare messaggi politici. I suoi ragazzoni in tute da lavoro ricordano un po’ i protagonisti di God’s Own Country di Francis Lee e la collezione è un workwear letterale in chiave modaiola, nel senso che sono tute da lavoro che probabilmente indosserà chi fa un lavoro che non richiede la tuta. Ci sono anche i “completi della domenica”, gli abiti buoni da tirare fuori quando questa immaginata ruralità della vita si interrompe o, a seconda dei punti di vista, raggiunge il suo apice: d’altronde è difficile inquadrare gli uomini oggi, stabilire se sono manager globetrotter, sneakerhead non più giovani, dandy viziosi o Brexiteer arrabbiati, chi può dirlo con certezza?

Modelli sulla passerella di Louis Vuitton. Foto di ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP/Getty Images

E proprio i completi sono ricomparsi a centinaia sulle passerelle di questi giorni, offrendo spunti per tornare a parlare di sartorialità, tirare un sospiro di sollievo per un intero comparto che soffre più di altri, sperare infine che – in futuro non troppo lontano – la Generazione Z abbia intenzione, mentre quelli più grandi li prendono in giro per l’uso dei pronomi, di mettersi una giacca, un pantalone, un paio di scarpe che non siano sneakers. D’altra parte, quello delle tute da lavoro e dei completi “classici” è uno dei punti centrali nella ridefinizione delle identità, sociali e antropologiche, cui assistiamo in questo momento storico confuso, tanto più curiosa da osservare tramite la specola parziale e universalissima della moda. Virgil Abloh si è presentato alla sua seconda prova da Louis Vuitton mentre la collezione Primavera Estate 2019 faceva furore in un pop-up store di Tokyo, annunciando anche il lancio di una collezione di gioielli che porterà la sua firma. Ormai Abloh non ha neanche bisogno che Kanye, e le Kardashian, siano in prima fila per continuare a raccontare la sua storia di successo, lo fa e basta, ricreando una New York fittizia e autunnale dove gli uomini indossano maglioni a stelle e strisce, bomber e giacche che si allacciano sul petto. I vestiti sono tutto sommato semplici, la storia, quella sì che è convincente, se ne sono fatti una ragione ormai tutti, se c’è un “tastemaker” oggi, uno über-infuencer, è proprio lui.

Modelli sulla passerella-nastra di Dior. Foto di FRANCOIS GUILLOT/AFP/Getty Images

Hedi Slimane, invece, è rimasto dove l’abbiamo lasciato qualche mese fa, anzi dove è sempre stato: la sua prima collezione maschile per Celine ha sfilato in grande stile domenica sera, la silhouette si è persino allargata e le recensioni, in attesa dei primi dati economici di questo slimanissimo rebranding, sono state decisamente più morbide di quelle dello scorso settembre. Questo ci dice varie cose: che i completi come li disegna lui li disegnano in pochi, che la moda il più delle volte è una cosa pratica, e che ci arrabbiamo molto quando si tratta di donne (e della loro immagine) e meno quando si parla di uomini. La sfilata, manco a dirlo, funzionava bene, e completava alla perfezione il campionario di uomini che gli stilisti parigini, perlopiù d’adozione, ci hanno regalato in questi giorni. I ragazzi-statue, impettiti ma mai così morbidamente vestiti, di Kim Jones da Dior, quelli di Pierpaolo Piccioli da Valentino e di Jun Takahashi da Undercover, contraltare gli uni degli altri in un esercizio di co-branding francamente eccezionale, i corpi nudi dell’esordiente Lodovic de Saint Sernin e quelli copertissimi di Vetements e GmbH. Com’è bella, nonostante tutto, la moda vista da Parigi.