Si chiama warning fatigue, cioè la tendenza a sottovalutare o ignorare un pericolo che viene segnalato troppe volte e troppo spesso.
Ecoansia è già una parola dell’anno scorso, una alla quale ormai non pensa nessuno. Se se ne dovesse scegliere una nuova, di parola, per descrivere questo, di anno, sarebbe una di segno opposto: ecoscetticismo forse, probabilmente econegazionismo. Sui social circolano da giorni – più o meno dall’inizio dell’ondata di calore in Europa e negli Usa – foto e video, ovviamente realizzati con l’intelligenza artificiale, in cui si vedono vecchie edizioni del meteo, di 20, 30, 40, 50 anni fa, che raccontano fatti identici a quelli che raccontiamo oggi: punte di 45 gradi qui, un nubifragio lì, una persona a cui è quasi letteralmente scoppiato il cuore per il caldo là, una casa portata via dal vento qua. In molti ci hanno creduto, a questi video e a queste foto, tanto da costringere i debunker a intervenire e ribadire (vanamente) che quello che stiamo vivendo non lo abbiamo vissuto mai.
Stando così le cose, e dando per scontato il peggioramento della situazione nell’immediato futuro (non c’è un partito di destra o destra-destra al mondo che non condisca la sua offerta politica con una spruzzata di econegazionismo), si capisce che quella dell’ecoansia è una questione ormai quasi marginale, se non del tutto irrilevante. Poco importa che nel 2021 da un sondaggio globale, i cui risultati furono poi pubblicati su Nature, venne fuori che metà della popolazione compresa nella fascia d’età 16-25 si definisse «triste, ansiosa o impotente» di fronte all’aggravarsi della crisi climatica, e che da questa tristezza, ansia e impotenza stessero emergendo psicopatologie gravi, talvolta invalidanti. Ancora meno importa che io abbia ormai accertato di essere tra queste persone, quelle per le quali l’ecoansia sta diventando qualcosa in più di un problema, anche se è ancora qualcosa in meno di una malattia.
Negli scorsi giorni a Milano ha piovuto molto. Come tutte le malattie, anche l’ecoansia ha le sue quantità precise e i suoi strumenti di misurazione. L’assessore alla Protezione Civile Marco Granelli ha detto che in città «è caduta pioggia per massimo 30 mm nella zona ovest e minimo 15 nella zona est». È tanto? È troppo? Probabilmente è tanto ma è troppo presto per dirlo, con la crisi climatica i conti si fanno di media annuale in media annuale. In un report pubblicato a gennaio del 2025, il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente faceva sapere che, per quanto riguarda Milano, «le precipitazioni complessive del 2024 mostrano un’anomalia del +47 per cento rispetto alla media climatologica 1991-2020». L’idea che ogni volta che piove sia la volta che piove troppo sta alla base di una paura che ormai quasi mi impedisce di uscire all’aperto quando il cielo si fa nuvoloso. Il giorno dopo il temporale di domenica 6 luglio, una mia collega mi ha detto che mentre tutto succedeva lei era per strada, in motorino, con sua madre. Non ho neanche avuto bisogno di immaginare cosa avrei fatto nella circostanza, perché ormai so che in questa circostanza io, semplicemente, non mi ci posso ritrovare (mentre lei era in motorino con sua madre io ero ancora in redazione, ampiamente oltre l’ora di cena, ad aspettare che spiovesse). Se un’app di meteo mi dice che a una tal ora è previsto l’inizio di un temporale, io sono sempre a casa almeno due ore prima della tal ora. Spesso, se l’app di meteo prevede un temporale, la casa non la lascio affatto.
In questi due giorni di temporale – lo chiamo così per evitare la prosa allarmistica, ma in privato lo definirei in tutt’altra maniera – mi tornava in mente un passaggio dello Hobbit di J.R.R. Tolkien: «More terrible still are thunder and lightning in the mountains at night, when storms come up from East and West and make war. The lightning splinters on the peaks, and rocks shiver, and great crashes split the air and go rolling and tumbling into every cave and hollow; and the darkness is filled with overwhelming noise and sudden light». L’ho scoperto tardi, ma adesso so che Bilbo Baggins, che pure aveva il coraggio di starsene faccia a faccia con un drago, soffriva (proprio come me!) di astrafobia. Tecnicamente, l’astrafobia è la paura dei tuoni e dei fulmini. Per estensione, la stessa parola viene usata per descrivere anche la paura degli agenti atmosferici tutti: lampi e tuoni, sì, ma anche le raffiche di vento e le tempeste di fulmini. Come per tutte le loro paure, anche a questa gli esseri umani hanno dato tanti nomi, tutti di derivazione greca o latina: caraunofobia, brontofobia, tonitrofobia, astrapofobia.
Mi ha fatto piacere scoprire che rientra tutto in una delle due “paure naturali” inscritte nel corredo cromosomico di ogni essere umano: la paura di cadere e la paura dei rumori forti. Mi ha fatto piacere scoprire che è una paura che condividiamo con i cani e i gatti. Durante questi giorni di temporale a Milano, ho osservato il comportamento dei miei gatti, estremamente razionale: dopo i primi lampi e i primi tuoni, si andavano a ficcare in angoli della casa in cui poco o niente di quello che succedeva fuori arrivava ai loro occhi e alle loro orecchie. Io, di contro, me ne stavo imbambolato davanti alla finestra. Poi iniziavo la delicata operazione di sigillare i bordi inferiori delle finestre con degli stracci, per evitare che l’acqua entrasse in casa, finisse sulle prese dell’elettricità, facesse scoppiare un incendio e che le fiamme bruciassero vivi me e i miei gatti. Suppongo sia questa la differenza tra la razionale paura degli animali e l’irrazionale fobia di un essere umano.
Negli ultimi anni ho provato a scrivere la origin story della mia ecoansia, in particolare della mia fobia del temporale. Mi ero anche inventato una storiella molto letteraria e molto soddisfacente da raccontare, nella quale tutto avrebbe avuto inizio con la prima lettura, da adolescente, della Linea d’ombra di Joseph Conrad, allo sconvolgimento causato da quella scena in cui il protagonista si ritrova da solo nel vuoto, nel silenzio, nell’altro mondo che esiste al centro della tempesta. L’età adulta mi ha fortunatamente affrancato da ogni velleità letteraria, e adesso mi viene più facile ammettere che nell’odio che provo per i temporali c’entrano più le strade di Milano che la prosa di Conrad. A ogni allerta meteo ripasso quello che nella mia testa è ormai un manuale di sopravvivenza vero e proprio: «Si ricorda di non sostare sotto e nelle vicinanze degli alberi e nei pressi di impalcature di cantieri, dehors e tende». Ripeto questa frase e mentre la ripeto sento montare la rabbia: sono a Milano, se devo camminare evitando cantieri, dehors e tende tanto vale che me ne resti al chiuso, al riparo. Cosa che finisco puntualmente per fare, infatti.
Ovviamente, se l’ecoansia è una malattia, io me la sono autodiagnosticata e le autodiagnosi sono inaffidabili, inaccettabili per definizione. Magari non soffro affatto di ecoansia, e mi toccherà trovare un nome alla catena di emozioni negative e comportamenti irrazionali che mi stritola quando leggo certe notizie. Per esempio: preparandomi per scrivere questo ho scoperto che, prima dell’arrivo dell’uragano Milton, le autorità della Florida invitavano i cittadini a scriversi i loro nomi e cognomi sulle braccia in modo da facilitare l’eventuale riconoscimento del cadavere. Ora, forse io non soffro di ecoansia ma sicuramente soffro di belonefobia, la paura degli aghi, ragione per la quale non ho mai fatto un tatuaggio. Dopo aver letto questa notizia, sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di tatuarmi il mio nome sul braccio, nel remota ipotesi in cui mi dovesse saltare in testa di uscire durante un temporale.